La città dei trecento giorni di sole all’anno, l’isola felice che non vede mai piovere quando la Toscana affoga, la città che col tempaccio si deprime quando non può andare sul mare, si riscopre vulnerabile come tutti gli altri posti d’Italia, impotente nonostante sapesse tutto dei suoi pericoli incombenti, a partire da nomi e cognomi: rio Maggiore e rio Ardenza, allagamenti ciclici, milioni di euro per i lavori, monitoraggi continui, adeguamenti. Tutto bello quanto inutile: il Maggiore – tombato da trent’anni – è esploso addosso a una palazzina liberty tra l’Accademia Navale e lo stadio di quelle di cui i forestieri si invaghiscono, l’Ardenza nei suoi ultimi tre chilometri ha portato via di tutto fino ad abbattere le spallette dei Tre Ponti, la spiaggia dei surfisti livornesi.

Livorno non sa a chi dare la colpa, e se ce n’è una. Da una parte il solito gioco di rimbalzo su chi doveva pulire i canali e l’interrogativo se questo sia davvero il punto quando a scoppiare sono anche i torrenti sotterranei. Ma su questo punto picchiano insieme sia il sindaco Filippo Nogarin sia il vescovo-architetto Simone Giusti. Dall’altra, una cascata di 200 millimetri d’acqua in 6 ore, cioè in una notte quanta acqua cade sulla città in 5 mesi. Due elementi che il presidente Sergio Mattarella tiene insieme per “sollecitare al più presto nel mondo politico una riflessione, seria e approfondita, sugli effetti dei cambiamenti climatici e su come difendere efficacemente il nostro territorio”. 

Mentre sindaco e presidente di Regione litigano sul significato autentico del colore dell’allerta, la città riprende fiato – paonazza – dopo l’apnea delle decine di salvataggi di pompieri. La gente presa dai tetti, come dopo gli uragani a Houston. Muri fatti d’acqua che precipitano verso il mare, come accade sempre a Genova, ma mai qui. Questa volta, invece, hanno portato via una famiglia intera, che un nonno giovane non è riuscito a salvare. E ne hanno spezzate altre, come quella di Filippo e Martina, sposi a luglio. L’acqua ha sfondato la porta blindata, li ha sputati fuori, lui le ha tenuto la mano finché il fango non lo ha portato giù per due chilometri e non lo hanno trovato in stato confusionale attaccato a un ramo, a pochi metri dal mare. Lei, invece, non si sa.

Non è il nubifragio di Livorno. E’ il nubifragio di una parte di Livorno, quella più a sud: tre, quattro quartieri, tutti residenziali. Il centro – circondato dai Fossi Medicei – è rimasto integro, lo stesso i rioni a nord. La città dunque conosceva i suoi pericoli, li conosce da anni. Gli allagamenti nella zona di Ardenza in cui si trova la villetta travolta da acqua e fango del Rio Maggiore – già deviato alla fine dell’Ottocento per permettere la costruzione delle villette liberty – non sono un’eccezione. Il più grave che si ricordi era quello è del 1990, prima della devastazione dell’altra notte. Mentre i Tre Ponti – che si chiamano così perché in origine c’erano tre arcate – da una ventina d’anni in realtà sono cinque, proprio perché furono ristrutturati e rafforzati per agevolare l’uscita dell’acqua del Rio Ardenza in mare. Poi c’è anche il torrente Ugione, a Nord, che stranamente questa volta non ha fatto parlare di sé ma è sempre il primo ad alzarsi. Anche Montenero, sulla collina che guarda Livorno, è da sempre nelle cronache di maltempo proprio per quello che è successo di nuovo l’altra notte: fiumi d’acqua lungo le strade che questa volta hanno portato via Raimondo, 70 anni, davanti agli occhi di moglie e figlia, salve perché erano salite sul tetto. Nel frattempo a Montenero hanno costruito ancora: l’acqua scende dal colle e invece di essere drenata dal terreno, pattina sul cemento. E nel frattempo lungo il corso del Rio Maggiore e del Rio Ardenza sono nati altri quartieri, uno si chiama la Scopaia e lo chiamano il quartiere-dormitorio: decine e decine di appartamenti, migliaia di abitanti. Prima, se il canale esondava, lo faceva nei campi e non se ne accorgeva quasi nessuno. Ora, se esonda può finire anche in una casa. 

Era la fine del 2014 quando la Protezione civile presentò un piano di interventi anti-nubifragio. Il Comune, che annunciò il 17esimo posto su 60 capoluoghi in materia di “lavoro di mitigazione del rischio”, presentò tra l’altro i lavori di realizzazione di 4 casse d’espansione lungo il Rio Maggiore: costo 1,8 milioni di euro a carico delle ditte che stanno costruendo un nuovo quartiere – il cosiddetto Nuovo Centro – che passa sopra al torrente interrato. In quell’occasione fu sottolineata la riduzione del rischio idraulico per circa 4mila livornesi soprattutto dell’Ardenza. Altri lavori sul Maggiore erano stati eseguiti già nel 2003. Sul Rio Ardenza nel 2003 e nel 2007. Eppure per il climatologo Massimiliano Fazzini, docente dell’università di Camerino e Ferrara e membro dell’Associazione nazionale dei geomorfologi, “è fondamentale rivedere l’assetto idraulico della città ed in particolare del Rio Maggiore” perché “neppure i recenti lavori di messa in sicurezza mediante la costruzione di vasi di espansione hanno risolto il problema che anzi si è mostrato in tutta la sua drammaticità”.

Mentre si interroga sul perché, Livorno vede i graffi sulla propria faccia: piazza delle Carrozze, nel borgo di Montenero, è una distesa di fango e calcinacci; Barriera Margherita – arrivo e partenza delle passeggiate sul mare – soffocata da un metro e mezzo d’acqua; e poi macchine sui cancelli, macchine sulle rive dei torrenti, tettucci di macchine che spuntano a pelo d’acqua, macchine su altre macchine. I viali a mare – pieni anche d’inverno – si svuotano, diafani per la paura, e si riempie facebook: gli appelli per tanti cani scomparsi, quelli per fermare il traffico dei ciaccioni, i curiosi, i ringraziamenti pubblici ai vicini che hanno aiutato a spalare fango, le offerte di case e vestiti (“5 maglie, 5 paia di calzini, 4 body bambino”). Ci si fa coraggio con un verso dell’inno della squadra di calcio, Non piegare un istante giammai, o con la una canzone di Bobo Rondelli su Madame Sitrì, la maitresse del bordello più esclusivo della città: Viaggio d’andata, senza ritorno / bella Livorno, io mi fermo qui. Livorno ritrova in mezzo alla mota l’amore per se stessa che spesso dimentica a beneficio dell’apatia. Avvisi pubblici, sempre sui social: “Ora prendo la macchina e vado ad aiutare. Chi viene?”, “Al PalaModigliani raduno dei volontari per capire dove serve aiutare”. Gira la foto di un furgone di una ditta edile carico di volontari pronti a lavorare gratis di domenica. I livornesi sembrano ritrovare quello che il direttore del Vernacoliere Mario Cardinali rimprovera da anni alla città di aver perso: lo spirito dei tempi “della solidarietà e dell’amore del prossimo, del non arrendersi mai, della voglia di combattere”. La carica la suona il direttore del seminario, don Paolo Razzauti, ex vicario della Diocesi: “Anche questa volta ce la faremo, perché siamo ‘di scoglio’ ed i nostri volti sono ‘scolpiti’ dal libeccio”.

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