E qui si aprono ulteriori incastri: premiare Sutherland implica premiare anche Helen Mirren, coprotagonista fifty fifty dell’on the road del regista italiano, ma che molto probabilmente non rimane una performance memorabile per via di un peregrino accento inglese. Se la casella ‘attrici’ rimane scoperta non dovrebbero risultare indifferenti le donne straordinarie del film di Kechiche (tutte, nessuna esclusa, da quelle sessantenni a quelle diciottenni), oppure la Sally Hawkins muta di The shape of water. Insomma, da qualunque parte la si giri, l’indecisione è totale. E gli italiani?
Mentre Una famiglia di Riso e Hannah di Pallaoro non hanno convinto per niente, pare avere qualche chance di premio, probabilmente un’invenzione ad hoc (come l’anno scorso accadde per The Bad Batch) è lo strampalato Ammore e Malavita dei Manetti Bros: adorato con sorpresa dalla stampa italiana tradizionale, e dimenticato dal pubblico giovane che dovrebbe essere il tuo target.
In mezzo al caos dei premi segnaliamo però una nostra personale certezza vista proprio come ultimo film in Concorso. Jusqu’à la garde, opera prima del francese Xavier Lagrande, è un piccolo, compatto e asciutto film che mette in scena gli effetti nefasti di una separazione tra marito e moglie sui propri figli. In medias res assistiamo alla seduta di affidamento davanti al giudice. Il minaccioso e corpulento padre (un incredibile Denis Menochet) strappa l’affido del figlio minorenne ogni due weekend, ma capiamo subito che il suo ambiguo atteggiamento e la violenza che esplode contro il ragazzino (inchiniamoci di fronte ai pianti del piccolo Thomas Gioria perché sembrano veri) celano un desiderio di vendetta verso la sua famiglia che si espliciterà in un finale alla Shining.
Suddiviso in tre parti distinte (un paio di weekend del padre in compagnia del figlio, la festa di compleanno della sorella maggiore e la conclusione in casa), Lagrande toglie ogni fronzolo melodrammatico al racconto e si concentra su una caratterizzazione di psicologie e gesti di rabbia che sembra aver conosciuto di persona; come sul timing accurato e graduale di una drammaturgia intrisa di codici da thriller. Ad ogni esternazione violenta del padre – fattezze da orco così la madre (l’affascinante Lea Drucker) è esile come un’acciuga – si salta sulla sedia. E nel finale ci si accartoccia quasi per non guardare le immagini nonostante sullo schermo non scorra una goccia di sangue. Secondo noi questo film potrebbe prendere un premio a mani basse, anche solo per la regia o il miglior attore. Non ci resta che attendere poche ore. L’incertezza è sovrana. E le sorprese sono dietro l’angolo.