Ieri 6 settembre a Lussemburgo la Corte di giustizia dell’Unione europea ha respinto il ricorso di Ungheria e Slovacchia sul sistema di ricollocazione dei migranti, che prevede che venga trasferito a ogni Stato membro un numero di persone dai paesi di primo arrivo secondo un sistema pattuito di quote.

Si tratta di una risposta chiara in particolare ai governi dell’Europa dell’Est che pretendono di ricevere fondi e sostegno dall’Unione europea senza sottostare alle regole dello stato di diritto e agli obblighi di solidarietà, fomentando peraltro miopi politiche nazionaliste e neanche troppo sottilmente xenofobe.

La decisione della Corte deve servire come monito a fare di più anche per altri governi, poiché tutti, o quasi, si sono nascosti dietro la chiusura dei paesi dell’Est per sfuggire in toto o in parte ai propri impegni.

In una rara coincidenza di tempi con la decisione della Corte, ieri la Commissione ha approvato un nuovo meccanismo di ricollocazione e reinsediamento per il 2018, stanziando 377,5 milioni di euro; quello in vigore dal 2015 scade a fine mese senza essere stato che parzialmente applicato. Al momento della creazione del sistema attuale, era stato concordato di ricollocare 160.000 persone tra i paesi Ue: al primo settembre, secondo un rapporto della stessa Commissione, ne sono state trasferite soltanto 27.645. Un risultato gravemente insufficiente, che è dipeso dall’ostilità da parte dei governi ad applicarlo e dalle lentezze burocratiche frapposte. Tanto per citare un esempio, Barcellona e Madrid si erano dette disposte ad accogliere rifugiati stanziando anche risorse finanziarie specifiche, ma il governo di Rajoy si è radicalmente opposto: risultato, la Spagna ha accolto solo il 10% dei 15.000 assegnati. La Francia, 3.478 su 19.000 assegnati. Una posizione non poi così diversa da quella di Orban.

È stato anche questo atteggiamento che ha determinato una crescente ostilità nei confronti dei migranti e dei rifugiati in Italia e in Grecia: chi sente di non ricevere la solidarietà altrui sarà meno propenso a darne.

La decisione della Corte europea deve essere l’occasione di accelerare la riforma della Convenzione di Dublino e di rimettere al centro del dibattito la questione del governo delle migrazioni, da attuare sulla base di principi di solidarietà e di responsabilità condivisa tra tutti i paesi. Queste non sono parole di anime belle, ma reali alternative al chiacchiericcio dei tanto di moda “cattivisti” senza soluzioni, che insistono sul tasto del “tutti fuori e vivremo felici e contenti”, disposti a buttare via miliardi di euro in muri e barriere, ma non a investire in integrazione e lavoro (condizioni per una reale sicurezza), che si illudono che esternalizzare a bande di mafiosi o delinquenti la gestione dei flussi sia molto diverso rispetto a continuare a riempire le tasche dei trafficanti di esseri umani.

Governare le migrazioni significa anche avviare una politica di cooperazione verso i paesi terzi che non sia orientata solo a finanziare la chiusura delle frontiere, ma anche alla creazione di effettive occasioni di crescita; significa anche mettere finalmente in marcia una politica economica in Europa che superi l’austerità, rinunci alla vendita di armi e scelga di investire in educazione e attività economiche sostenibili.

Infine, con questa decisione la Commissione può e deve uscire dalle sue esitazioni e agire, sanzionando non solo i paesi che hanno completamente ignorato la decisione da loro stessi presa nel 2015 sulle ricollocazioni, ma anche coloro (e sono molto numerosi) che l’hanno applicata in modo parziale.

Insomma, il rispetto della legge è una strada maestra da percorrere, non solo quando ci sono parametri e numeri da rispettare, ma anche e soprattutto quando in gioco ci sono il destino e la vita di tante persone che hanno bisogno e diritto di essere protette.

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