Quella figlia che a 26 anni non si è laureata e vive ancora in casa rischia di costare al padre più della moglie da cui ha divorziato. I giudici hanno, infatti, stabilito che l’uomo, un professionista di Pordenone, deve provvedere al mantenimento sia di tipo ordinario che straordinario di quella che è ormai diventata una donna. Si è conclusa di fronte ai giudici della Corte d’appello di Trieste una diatriba familiare che aveva già conosciuto un grado di giudizio. E anche in quel caso il padre era stato condannato a pagare, seppur in modo un po’ difforme.

Il ricorso della figlia sosteneva che era venuto meno il mantenimento da parte del padre, a cui era tenuto quando era stato siglato il divorzio con la madre, e che il padre vi doveva far fronte per garantirle un certo tenore di vita. Anche perché si trovava a dover vivere con una paghetta di alcune decine di euro alla settimana. Seppur con i debiti distinguo è un ragionamento analogo a quello che viene fatto con l’assegno di mantenimento del coniuge divorziato.

La replica del padre, abbastanza ovvia, è stata che una persona di 26 anni non può essere qualificata come una “maggiorenne non autosufficiente” e quindi è giusto garantirle l’aiuto soltanto in caso di bisogno, non assecondarne le scelte di vita, ad esempio quella di non laurearsi e di non accettare allo stesso tempo un impiego di lavoro. Era per questo che ad un certo punto l’uomo non aveva più pagato una casa in affitto vicino all’università e le spese per le vacanze, ma aveva continuato a coprire le spese mediche, l’auto e l’abbigliamento.

All’epoca del primo ricorso in Tribunale a Pordenone, la richiesta mensile quantificata dai legali della ragazza era di 2.577 euro al mese (che comprendevano spese per salute, istruzione e bollette della casa vicino all’università), oltre a 400 euro di “paghetta” mensile e un migliaio di euro per poter andare in vacanza. In primo grado, assistita dall’avvocato Gabriele Sansonetti, l’aveva spuntata.

I giudici, come ha riportato Il Messaggero veneto, avevano affermato che la ragazza doveva poter concludere l’università, rallentata anche per una crisi seguita al divorzio del genitori. “Il progetto formativo della maggiorenne merita ancora del tempo, onde pervenire a una soddisfacente realizzazione, sebbene occorra che la ragazza spenda maggiore diligenza nel portare a compimento gli studi, ovvero progressivamente avviarsi al mondo del lavoro”. Il padre era stato condannato a sostenere spese ordinarie, sanitarie e di università, oltre a versare un assegno di 500 euro al mese per spese personali e di divertimento (vacanze comprese).

Assistito dall’avvocato Francesco Silvestri, aveva fatto appello, sostenendo che la figlia è convivente e quindi non c’è obbligo all’assegno di mantenimento. E aveva spiegato che il taglio delle spese per vivere in sede universitaria era motivato dal fatto che così evitava alla figlia eccessive distrazioni. Inoltre, lei aveva rifiutato diverse offerte di studio alternative o di lavoro. Ora è arrivata l’ultima, definitiva sentenza: il padre deve pagare, ma l’assegno mensile è stato ridotto a 350 euro.

Secondo i giudici, in base alla legge, un figlio che non ha raggiunto l’indipendenza economica deve essere mantenuto. È accaduto anche a Milano dove ne ha beneficiato un uomo arrivato a 34 anni di età. Le toghe hanno censurato la scarsa applicazione universitaria della studentessa, ma l’hanno allo stesso tempo giustificata, sostenendo che “oggi c’è una certa inerzia nella maturazione che porta all’indipendenza dei giovani ragazzi”. È per questo che il limite d’età dell’assegno si è alzato. La riduzione di 150 euro al mese sarebbe un incentivo rivolto alla ragazza a darsi una mossa e decidere di concludere in fretta gli studi o accettare un lavoro.

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