Cinema

Mostra del Cinema di Venezia 2017, Ammore e malavita dei Manetti Bros sceneggiata intinta nel musical

Idoli indiscussi del cinema indie d’intrattenimento, nonché autori dello spassoso Ispettore Coliandro in tv, Marco e Antonio Manetti con il loro film, in Concorso, regalano due, tre palpitazioni al massimo e qualche spunto giocoso

di Davide Turrini

Ammore e malavita è la risposta italiana a La La Land”. L’accostamento formulato da Paolo Del Brocco, amministratore delegato di Rai Cinema che produce Ammore e malavita, terzo film italiano in Concorso al 74esima Mostra del Cinema di Venezia, imbarazza un tantino a chi ha assistito alla sceneggiata intinta nel musical firmata dai Manetti Bros. Idoli indiscussi del cinema indie d’intrattenimento, nonché autori dello spassoso Ispettore Coliandro in tv, Marco e Antonio Manetti erano attesi a quella che sembrava essere la loro pizza atomica o pizza a fantasia del cuoco. A disposizione c’erano le sparatorie e la gang malavitose; una vagonata di musica neomelodica ma anche da orchestra anni sessanta/settanta (autori: Nelson, Pivio, Aldo De Scalzi); c’era l’attore feticcio Giampaolo Morelli protagonista; c’era da saccheggiare l’anima urbana ed evocativa di Napoli; e c’era pure Carlo Buccirosso che potrebbe stare in scena e fare un film da solo facendoci sbudellare dalle risate.

Invece Ammore e Malavita regala due, tre palpitazioni al massimo (la sequenza cantata con What a feeling di Flashdance in una corsia di ospedale), qualche spunto giocoso, ma mai un respiro esagerato di cinema che potrebbe (vorrebbe) esplodere, far danzare, muovere piedini ballerini e smuovere budella. Si parte subito da una cantatina di Don Vincenzo (Buccirosso) da dentro una bara. Un pezzo musicale rinchiuso dentro una cassa da morto. Nessuno si muove, nessuno danza, solo il morto canta, di profilo, e tutt’attorno si svolge il funerale. Anche se il tizio morto è un sosia del boss, un commesso qualunque ucciso dai suoi scagnozzi per far credere al clan rivale di essere realmente riuscito a far fuori Don Vincenzo. In realtà lui e la moglie donna Maria (Claudia Gerini) si rinchiudono nella loro lussuosa e sotterranea “Panic Room” per sfuggire alla vita concitata della malavita, prima di vendere dei diamanti e con il ricavato fuggire all’estero. Solo che durante il ricovero vero in ospedale di Don Vincenzo ferito, l’infermiera Fatima (una sempre spiritosa e vitale Serena Rossi di Un posto al sole) ha visto tutto e va uccisa. Se ne deve occupare Ciro (Morelli), una delle due “tigri” del boss (l’altra è il cantante Raiz). Ma anche qui, colpo di scena, Ciro è innamorato ricambiato da Fatima fin dall’infanzia e tradirà il collega. Inevitabile che Don Vincenzo voglia ora eliminare sia la gang rivale che Ciro più Fatima.

Non nascondiamo che la durata di 133 minuti, due ore e tredici, risulti un po’ abbondante nell’economia di un racconto in cui i punti deboli, che non permettono di far mai accelerare il ritmo, tenendo il motore imballato in un incantato loop parodico (dei film sulla camorra, delle sceneggiate, dei musical), sono proprio quelli legati alla disomogeneità tra testo e musica. Le coreografie di Ammore e malavita si riducono spesso a braccia spostate a destra e sinistra dritte sopra la testa di quattro comparse modello trenino del pranzo matrimoniale; oppure in alcuni casi lo slittamento della narrazione nel cantato è una semplice introduzione a un (bel) video musicale. Guardate l’apparizione regale del re della sceneggiata Pino Mauro seduto in mezzo a corni rossi in una notturna Piazza del Plebiscito a cantare Chiagne Femmena, per capire di cosa parliamo. Insomma una miscela tra Tano da morire, L’ultimo guappo e una qualsiasi inquadratura di Gomorra. E a proposito di tutto l’armamentario visivo tratto da Saviano, Ammore e malavita mostra a pochi minuti dell’inizio, una sequenza buffa e ironica sulle Vele di Scampia, spazio comunque lugubre e noir dove finisce un pullmino di turisti americani tutti intenti a fare foto e un paio di balletti modello veline. “È un po’ la presa in giro del gomorrismo imperante”, hanno spiegato i registi in conferenza stampa. “Le Vele oramai simboleggiano e raccontano sempre una Napoli cupa e nera, ma esiste anche una Napoli bellissima. Basta solo pensare al suo golfo. Solo che i napoletani nella loro positività sono riusciti a ribaltare con furbizia una rappresentazione negativa della città. Un attore napoletano tempo fa ci disse: “Se Parigi ha la Tour Eiffel, Roma il Colosseo, noi teniamo Scampia”.

C’è un altro ottimo film in Concorso a Venezia 74 che vogliamo segnalare in mezzo a decine di proiezioni. S’intitola Sweet Country ed è diretto dall’australiano Warwick Thornton. Camera d’Or a Cannes nel 2009 con Samson and Dalilah, Thornton evoca atmosfere western nell’Australia degli anni venti, posizionando il suo sguardo tra rocce, arbusti, deserti e scorpioni degli altopiani delle MacDonnels Rangers. È la storia di Sam, aborigeno che custodisce bestiame per conto di Fred Smith (il Sam Neill di Lezioni di Piano e Jurassic Park), un uomo religioso di frontiera che tratta umanamente gli aborigeni come tutti gli altri, lasciandoli perfino dormire in casa per custodirgli la casa mentre lui è in città. Fatto eccezionale perché da quelle parti i nativi, quelli schiavizzati, incatenati, frustati e tenuti nelle baracche, vengono appellati “black stuff”. Quando un nuovo contadino, un reduce di guerra in Europa aggressivo e razzista, s’installerà nella fattoria vicino a Smith, Sam difendendo se stesso e la moglie lo ucciderà sparandogli. Da qui inizia una fuga lunghissima, dove il manipolo di bianchi capitanato da un altro violento sergente (ve lo ricordate il Brian Brown di FX Effetto Mortale?), prova ad acciuffare Sam per condurlo alla forca, finendo perfino a disturbare un delicato ed ancestrale rito aborigeno. Strada facendo il manipolo si ridurrà sempre più e Sam finirà rocambolescamente di fronte ad un giovane giudice giunto in paese.

Il cinema di Thornton, in debito dichiarato di sguardo con Sergio Leone e con l’anima dei film di Trinità con Bud Spencer e Terence Hill, è immerso in un brusio perenne e appiccicoso, ed esplora infiniti spazi naturali ponendo continuamente interrogativi sulla colonizzazione disumana dei bianchi sui nativi. Ne esce un film dalla voce potente che non lascia eticamente spazio a dubbi, pur conservando una narrazione priva di eroi e di superficiale manicheismo. “La cultura aborigena è una cultura orale. E come c’erano i cantastorie, oggi ci sono i romanzieri e i registi”, ha spiegato Thornton in conferenza stampa a Venezia. “In Australia c’è un  problema centrale da sempre: la conquista di un paese che passa attraverso la terra rubata dai colonizzatori e la schiavitù della popolazione locale. Ricordiamoci che nel nostro paese gli aborigeni hanno iniziato a votare solo nel 1967”.

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