Un anno fa eravamo appena tornati da una passeggiata sulle montagne vicino casa. Avevamo fatto una sosta in piazza come sempre prima di rincasare e avevamo ordinato la cena da portar via in quel ristorante che ci piaceva tanto, dove la cucina era quella verace e familiare di sempre. I bambini avevano tolto gli scarponi e posato le racchette da trekking, per giocare come sempre sul palco allestito al centro del borgo medievale, per i concerti nelle sere d’agosto. Noi grandi eravamo seduti sugli scalini della chiesa, in un rituale di vecchia annata, col campanile medievale sulla testa e le torri antiche sullo sfondo, a mettere la firma sul paesaggio.

Stavamo programmando la giornata successiva. “Programmare” si fa per dire, perché il bello di rifugiarsi a Visso, la perla dei Monti Sibillini, era quello di chiudere il tempo in un cassetto. L’indomani ci saremmo visti a casa di qualcuno. Le case, a Visso, erano tutte un po’ speciali. Erano quelle dei nonni, le case dell’infanzia, le case da tramandare insieme al valore dei ricordi che custodivano. Erano case di vicinato e di legami, case di chi viveva lì da sempre e rifugi di famiglia tradotti in case vacanze per chi aveva lasciato il paese per la città ma non poteva fare a meno di tornare. Per tutti, in ogni caso, erano le radici.

Le valigie erano vuote quella sera, i vestiti ancora nell’armadio per imbavagliare il tempo della ripartenza. Ancora qualche giorno di vacanza, di amici, di aria buona, di camminate e di musica in piazza.

La notte del 24 agosto ci svegliò un boato che sembrava provenisse dal ventre delle montagne, le stesse che poche ore prima ci avevano accolto. Al boato, in pochi istanti, seguì una scossa fortissima che fece spostare il letto insieme all’intera casa. Le pareti sembravano volerci inghiottire e non si capiva più se a tremare fosse il letto, il pavimento, le mura di casa o l’intero paese. Era una situazione che metteva in allerta tutti i sensi, perché tutto in quell’attimo si era mischiato: il boato della terra, la forza della scossa, l’odore di polvere e il buio della notte. Mi alzai dal letto ancora prima di aprire gli occhi, pensai subito al terremoto, ai bambini lì accanto e all’unica (e niente affatto scontata) salvezza possibile: la casa è antisismica.

Uscimmo insieme al vicinato e al paese intero. Restammo in macchina tutta la notte, avevo sempre le torri medievali davanti agli occhi, ancora illuminate e miracolosamente in piedi. La firma sul paesaggio era rimasta. La mattina stessa presi al volo i vestiti e uscimmo nuovamente di casa. Fu l’ultima volta che ci misi piede.

Dopo quella scossa ne seguirono mille altre. I sismologi, dal 24 agosto 2016, ne hanno contate oltre 48.200 nel Centro Italia. La prima, tristemente nota, distrusse AmatriceAccumoli e le zone del reatino e portò con sé non solo distruzione ma morte. Per Visso, i paesi limitrofi e per tutta la Valnerina, il 24 agosto fu solo una prima avvisaglia del disastro che sarebbe avvenuto dopo. Quel disastro si manifestò in tutta la sua furia la mattina del 30 ottobre. Erano le 7.40 quando la terra si portò via paesi, case, bellezze, radici. A quella scossa ne seguirono molte altre, tutte violentissime.

Tornai a Visso, o meglio a quel che ne restava, dieci mesi dopo, senza arrendermi all’idea non solo di aver perso solo un borgo ma anche quel che rappresentava. Trovai un paese fantasma, militarizzato, con accesso ai varchi regolato dall’esercito e interdetto per la paura di ulteriori crolli.

Ciò che non trovai, fu peggio. Non trovai i compaesani, smarriti e sparpagliati in altre parti d’Italia, vittime collaterali scampate alla furia del terremoto ma la cui vita è cambiata per sempre. Non trovai i moduli abitativi, non trovai le macerie smaltite. I postumi del sisma erano ancora tutte lì ad ostruire la vita oltre che le strade, nessuna ricostruzione in vista ma neanche nessuna demolizione avviata. Una burocrazia lenta a frenare ogni slancio, e tutt’oggi mi domando dove fosse quella stessa burocrazia quando si trattava di costruire con criteri anti sismici.

Alle macerie materiali si accompagnavano macerie di identità.

Perché le scosse sismiche del terremoto si portano dietro non solo le case, i paesi e la loro storia, ma l’identità delle persone che reggono in piedi queste comunità. E’ un danno più subdolo e meno evidente, ma è forse il peggiore: dividere i compaesani, persone abituate a viversi e vedersi ogni giorno, significa annullare i rapporti che hanno costruito in molti casi fin dalla nascita, significa smembrare comunità, sparpagliare amicizie unite da un vincolo territoriale e disgregarle in tanti pezzi.

Ecco perché ricostruire i legami, dopo un terremoto, è altrettanto importante che ricostruire i paesi. E voi ci state mettendo troppo. Ci state mettendo troppo perché un anno è lungo e basta a stravolgere le vite delle persone. Quanto si è iniziato a fare a un anno dal terremoto, ad esempio con l’arrivo delle prime casette, è sempre troppo poco. Chi vivrebbe in queste condizioni tanto a lungo? Quello che manca, in questa storia, è la capacità di immedesimarsi. E se per la ricostruzione pesante ci vorrà del tempo (già, ma quanto?), per i legami bisogna intervenire d’urgenza, rimettendo in piedi il prima possibile quei pezzi di vita che la furia del sisma ha sparpagliato ovunque.

Per farlo bisogna ritrovare nei paesi feriti i lembi risparmiati dal terremoto e renderli vivibili e aggreganti. Bisogna ascoltare la voce di chi resiste (#risorgimarche), sgomberare il campo dalle macerie, riaprire le strade e i collegamenti, individuare le aree per rimettere in piedi micro comunità fatte di negozi, luoghi di aggregazione, piccole piazze, casette in legno. Bisogna farlo presto, perché nel momento stesso in cui lo sto scrivendo è già troppo tardi e il rischio da scongiurare è che la gente non possa più aspettare. Il rischio da scongiurare è che i giovani vadano via, i commercianti siano costretti a riaprire altrove, gli anziani a morire senza sapere dove piantare i semi da tramandare.  Sono le persone la spinta per ricostruire i borghi, senza di loro non ci sarà più bisogno di ricostruirli.

Sono stati i compaesani, fino ad oggi, gli unici a reagire e a intervenire (con esempi brillanti come Visso-steniamo). Gli unici a sostenere invece che essere sostenuti. Gli unici a capire che quei borghi sono Italia, ma sono anche Europa e la loro rinascita dev’essere appannaggio di tutti.

Era il 24 agosto di un anno fa quando lasciai casa senza più rimetterci piede. Sappiate che Visso era bellissima.

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