Se c’è un nome che più di ogni altro rappresenta la mirabile parabola ascendente della produzione di birra artigianale e ha incarnato le idee e la creatività della craft revolution esplosa negli Stati Uniti a cavallo tra anni 70 e 80, è Anchor. Dalla sua sede originaria in Pacific Street, San Francisco, al momento della fondazione (1874), quest’araba fenice della birra californiana è risorta più volte dalle sue stesse ceneri (un terremoto nel 1906, la chiusura durante il proibizionismo, la distruzione dei locali in un incendio nel 1933), fino ad essere acquisita nel 1965, sul baratro di una definitiva sparizione, dal rampollo di una famiglia di industriali nel settore lavanderia.

Sono state le intuizioni e la sensibilità culturale del nuovo proprietario, Fritz Maytag, a trasformare un antico birrificio californiano di dimensioni regionali nel capostipite di un nuovo modo di produrre, pensare e bere birra. Attingendo alla fonte delle tradizioni europee più antiche e perfezionando una ricetta locale al punto da incarnare uno stile tutto californiano in un’icona, la Steam, Maytag ha consegnato nel giro di cinque anni (1970-75) all’immaginario collettivo e ai banconi di tutto il mondo una serie eccezionale di etichette che hanno cambiato radicalmente il panorama di malto e luppolo.

La già citata Steam, intrigante e ricco ibrido ottenuto da un lievito di bassa fermentazione attivato ad alte temperature; la densa Porter arrivata direttamente dai moli e dai cantieri della memoria industriale di Londra; la Liberty Ale con l’avvolgente onda aromatica di Cascade; la complessa Old Foghorn, barley wine come se ne facevano una volta in Inghilterra che spalancava la frontiera del possibile oltre ogni regola codificata dalla produzione massificata di bionde anonime e piatte. Furono in parte anche queste ricette, assieme ai risultati degli incroci e delle ricerche su nuove varietà di luppoli e alla legalizzazione dell’homebrewing firmata dal presidente Carter nel 1978, a dare avvio alla rivoluzione artigianale americana: un fenomeno culturale ancora forte e influente a quarant’anni di distanza.

Così, quando un comunicato ha ufficializzato il passaggio della storica Anchor al megagruppo giapponese Sapporo, più di un canto funebre si è levato sulla chiave di un hashtag, e si sono ulteriormente ingrossate le fila dei difensori d’ufficio della genuinità artigianale contro le incursioni spericolate dell’industria. Ad ogni nuova acquisizione, compravendita, passaggio di proprietà si riaccende la disputa craft vs Big Beer, ma al netto di vecchie formule e trancianti distinzioni di principio di poco apporto nell’approcciare l’argomento, alcuni punti di questa vicenda vanno messi in luce per arricchire il dibattito.

Se Anchor si è venduta al nemico, non lo ha fatto certo questo mese. Maytag aveva già passato il controllo del suo storico birrificio nel 2010, vendendolo ad una società di investimenti californiana, Griffin Group. Quello siglato ad agosto è solo un passaggio tra mani: il tradimento alla causa artigianale, se così si vuole intendere, era già avvenuto in passato.

Il gruppo Sapporo non è l’ultimo arrivato, ma un birrificio con un secolo e mezzo di storia nato dall’esperienza di un ingegnere giapponese formatosi in Germania. Il Paese del Sol Levante vanta un mercato sviluppato (tra i primi 10 al mondo) e una profonda e attenta diffusione della cultura brassicola. L’affermazione dei tre più importanti player giapponesi (oltre a Sapporo, Kirin e Asahi che attualmente possiede la nostra Peroni) può aprire interessanti scenari di espansione dei mercati e contaminazioni di stili e culture.

Le parole dell’attuale presidente di Anchor Keith Greggor in merito all’acquisizione e alle conseguenze per la perdita di identità artigianale del suo marchio, nel tono stizzito di una excusatio non petita, aprono però un cuneo nella definizione proposta dalla Brewer’s Association, considerata una “certa organizzazione autoreferenziale”: “Anchor produce birra artigianale (handcrafted) da molto prima che questo termine fosse coniato”. Anche non aderendo alla definizione della BA, “saremo sempre gli originali, e produrremo sempre in modo artigianale a San Francisco”.

È giunto forse il momento di ripensare il tentativo di racchiudere un’identità in una formula rigida? Si può discutere dell’opportunità di usare categorie non culturali (il numero di barili prodotti, la percentuale di azioni possedute da altri soggetti) per definire una storia che cambia ogni giorno?

Maytag e la sua Anchor, Brooklyn Brewery e Goose Island, tra gli altri, guidando negli anni 80 un nuovo fenomeno culturale, non avevano tempo per darne una definizione. Il movimento nato dalla tradizione europea combinata con la creatività di questi pionieri offre ancora, al giorno d’oggi, ispirazione e linfa alle oltre 5mila realtà “artigianali” sul suolo americano. Alcuni dei padri di quel cambiamento hanno scelto di regalarsi una pensione dorata vendendo le proprie creature, e tra i loro giovani epigoni c’è chi giura che non perderà mai l’anima originale e chi invece capitalizza investimenti e passione contro un ricco assegno dei megabrewers. Eppure, mai come oggi l’offerta è più variegata, diffusa, accessibile ai più. Se l’industria ha veramente ingaggiato una guerra contro il piccolo e bello, ha una lunga strada da percorrere: per ogni realtà che acquista, dieci nuove si affacciano sul mercato, mentre la domanda aumenta oltre ad affinarsi nei gusti e nelle esigenze. Le rivoluzioni culturali non si barattano contro moneta: una volta avviate non c’è dollaro che possa fermarle.

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