Anche in questi giorni il governo è tornato – lo ha fatto Gentiloni al Meeting di Rimini – a parlare di giovani, promettendo misure choc per loro. Un bene, per carità, ma la promessa di sgravi fiscali per i giovani non solo rischia di incorrere nel flop del governo Renzi – le imprese assunsero fino a che ebbero gli sgravi, poi tutto si sgonfiò – ma pone soprattutto un interrogativo urgente, visto che negli ultimi mesi (e ultimi anni) la retorica del giovanilismo ha cominciato a occupare ogni discorso pubblico.

Chi sono, infatti, esattamente i giovani? E chi si vuole aiutare quando si parla di giovani? Per quanto riguarda gli sgravi ad esempio l’età massima si fermerebbe a 32, anzi notizia recente a 29. Il che significa che ragazzi di 30, 32, 33, 34, precari o disoccupati, non potranno accedervi. Poi c’è stata, a luglio la fiammata sul riscatto gratuito della laurea sempre “per i giovani”. In questo caso la misura, che per ora non si sa che fine abbia fatto, si restringeva ai giovani nati tra gli anni 80 e 2000, “tutti quelli che andranno in pensione con il contributivo” (falso). Infine si è parlato, sempre in questi giorni, di introdurre nel sistema contributivo un minimo previdenziale “per i giovani” – qui non è specificata l’età –  che andranno in pensione con il sistema contributivo e rischiano di avere un assegno inferiore all’attuale pensione sociale.

La cosa veramente incredibile è che la questione giovanile esiste dagli anni Novanta, e non a caso le prime pubblicazioni, i primi libri, gli appelli sono iniziati già in quegli anni e poi proseguiti con copiosa documentazione negli anni 2000. Eppure ci sono voluti 20 anni, anzi molti di più, perché i governi cominciassero ad accorgersi che c’erano intere generazioni di giovani immerse sempre più nella povertà, capaci di sopravvivere solo grazie al welfare dei genitori e senza alcuna speranza di pensione davanti a sé. Il problema ha cominciato però, appunto, a crearsi negli anni Novanta, con l’introduzione dei contratti flessibili “grazie” al ministro Treu e poi con l’ingiusta riforma previdenziale voluta dal ministro Dini (con il consenso dei sindacati), per cui si salvarono dal sistema contributivo coloro che, nel ’95, avevano 18 anni di contributi, mentre gli altri entrarono nel girone infernale del contributivo secco. È chiaro allora che se si parla di persone che andranno in pensione con il contributivo, e che magari oltre al fatto di avere il contributivo hanno avuto carriere discontinue e contratti flessibili, dobbiamo prendere in considerazione anche uomini e donne nati negli anni 60 e 70, che oggi hanno quaranta o cinquant’anni eppure sono ancora nel limbo della precarietà e con un futuro di povertà estrema davanti a sé. Sono gli ex giovani, quelli che erano giovani quando i giovani cominciavano a stare veramente male ma che nessuno ha visto perché la politica arriva sulle emergenze con un ignobile ritardo estremo.

Cosa vogliamo fare per queste generazioni? Non figurano in alcun discorso governativo, sono vere e proprie generazioni fantasma che non godono neanche della misera consolazione di sentirsi citate da un capo di governo o da un ministro un giorno sì o un giorno no. Per loro niente sgravi, niente misure per il riscatto della laurea né, anche se non è chiaro, possibilità di integrazione della loro non pensione.  Sono esclusi da tutto, troppo vecchi per essere assunti e ovviamente troppo giovani per la pensione (che comunque non avranno). Ora, non c’è dubbio che le generazioni successive, i “giovani giovani” di oggi vivano in una condizione persino più miserevole (anche se va detto  che a differenza dei “giovani-vecchi” hanno avuto la fortuna di vedere in anticipo che tutte le porte tradizionali – ad esempio scuola e pubblico impiego – erano chiuse, e così hanno scelto facoltà  molto più concrete, non inutilmente umanistiche o comunque che non portassero verso settori saturi). Ma problema resta sempre l’aiuto “per categoria”, che lascia fuori milioni di persone, specie quando la categoria è confusa, non chiara, come quella – ideologica almeno per come viene usata dai nostri politici – dei giovani.

Un’alternativa più universale per aiutare davvero tutti sarebbe, di per certo, quella del reddito minimo, l’unica veramente democratica che non lascia fuori nessuno. Ma se questa misura è impraticabile, stando alle dichiarazioni di chi sta al governo, allora – se si vuole operare nella direzione della giustizia sociale – bisognerebbe aiutare tutta una serie di categorie che si trovano in difficoltà simili a quelle dei giovani. E ce ne sono a iosa. I disoccupati adulti, ad esempio cinquantenni, che dovrebbero essere reintrodotti nel mercato del lavoro con percorsi di formazione davvero funzionali. E poi le donne, che il governo a quanto pare ha dimenticato, quelle la cui occupazione farebbe crescere il Pil di numerosi punti percentuali, stando alle dichiarazioni di economisti e sociologi (ma questo, a quanto pare, non interessa a nessuno). Ragionando sempre per categorie, un aiuto veramente fondamentale sarebbe quello riservato alle madri che non riescono dopo la maternità a rientrare nel mondo del lavoro, perché un ragazzo che non trova lavoro ha almeno la possibilità di cambiare paese, mentre le madri sono spesso inchiodate in case e in città da cui non possono migrare. E sono milioni quelle che tentano invano di reinserirsi, perché senza servizi né veri percorsi ad hoc è davvero difficile trovare un’occupazione “vera”. E poi, ancora, perché non le famiglie povere?

Insomma, di fronte a tutto questo, ovvero alle emergenze della società italiana, il continuo appellarsi ai “giovani” come un mantra che arriva con un  ritardo di quasi trent’anni suona sconcertante e irritante. Ci dice di quanto poco i nostri politici conoscano la società italiana. E di quanto si appellino allo slogan del momento, senza neanche capire a cosa esattamente si riferisca.

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