C’è una categoria di studenti contro i quali è in atto un attacco senza precedenti: quelli che non riescono a laurearsi nella durata prevista del proprio corso di studi, cioè i cosiddetti “fuoricorso”. Nell’immaginario collettivo, il fuoricorso (che secondo una bufala ricorrente sarebbe una figura esistente solo in Italia) è uno studente mantenuto agli studi da mamma e papà, il quale sostiene un paio di esami l’anno e passa il proprio tempo tra okkupazioni e feste di universitari.

Indubbiamente, le figure di cui sopra esistono davvero, ma la “guerra ai fuoricorso” nasce per motivazioni economiche e ideologiche. Secondo i criteri di ripartizione del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) gli atenei ricevono i soldi anche in base al numero di iscritti in corso. I fuoricorso non portano finanziamenti aggiuntivi ma pesano in misura minore degli altri studenti sui bilanci universitari, recandosi in facoltà prevalentemente solo per sostenere gli esami mancanti. L’importo totale delle tasse universitarie per ciascun ateneo non può eccedere il 20% di quanto ricevuto dallo stato. Con la riduzione dei finanziamenti pubblici in atto dal 2008, in alcune università le tasse chieste agli studenti sono diventate fuorilegge, in quanto troppo alte in rapporto alla quota di Ffo. Gli studenti hanno addirittura presentato un ricorso (successivamente vinto) presso l’ateneo di Pavia.

Il governo Monti è quindi intervenuto nel 2012 con una norma ad hoc nella spending review, togliendo il tetto del 20% per le tasse dei fuoricorso. Il risultato è stato che queste sono schizzate verso l’alto in diverse università, senza che ciò portasse a un aumento di servizi. Quando dall’altra parte della cattedra si siede uno studente per sostenere l’esame, non tengo in alcun modo conto quanti tatuaggi e piercing abbia e neppure della sua storia personale. L’esame è il momento in cui si verificano le competenze acquisite: non è rilevante che lo studente abbia avuto bisogno semplicemente di ripassarsi le lezioni il pomeriggio oppure si sia dovuto impegnare per mesi e mesi. Quel che conta è solo la performance in quel particolare momento, e ritengo che la stragrande maggioranza dei miei colleghi si comporti in modo analogo.

 

Più in generale, chi si rivolge a un professionista desidera un lavoro eseguito a regola d’arte. Quanto tempo ci abbia impiegato l’esperto a imparare il proprio mestiere è secondario rispetto al risultato finale. Non c’è alcun motivo per “dare addosso” a una studentessa o studente che ha necessitato di più tempo degli altri per completare il proprio percorso di studio. Lo studente può andare fuoricorso per una serie infinita di motivazioni, che possono andare dai problemi di salute propri o di un familiare, o perché semplicemente si mantiene agli studi lavorando, o perché disegna bellissime vignette per Il Fatto quotidiano, come il nostro Mario Natangelo.

Il tempo impiegato per conseguire la laurea può dipendere, con le dovute eccezioni, molto più dalla situazione economica della famiglia d’origine piuttosto che dalle reali capacità dello studente. Chiariamo subito un aspetto: ben pochi desiderano andare fuori corso. Gli studenti impiegati part time la sera nelle pizzerie del centro sarebbero ben lieti di iniziare un percorso lavorativo qualificato prima possibile. Laurearsi oltre i 28 anni è già una penalizzazione sufficiente per gli “studenti sfigati”: non occorre aggiungere altre “punizioni”.

Le risposte degli atenei per gli studenti in difficoltà dovrebbe essere ben diverse rispetto a un semplice aumento delle tasse. Questo tipo di interventi non serve a “far sbrigare” gli studenti, ma molto più probabilmente a aumentare gli abbandoni. Si potrebbero piuttosto incrementare le borse di studio e introdurre dei tutoraggi. Questi interventi hanno però un costo, e per la politica che ha come priorità il tweet più condiviso verso l’avversario di turno rispetto alla crescita del paese, i fuoricorso sono l’agnello sacrificale da immolare sull’altare del darwinismo sociale. Così come si invoca il finanziamento esclusivo delle presunte eccellenze nell’accademia per mascherare il taglio di risorse complessive, nello stesso modo si colpiscono gli studenti più deboli per distogliere dal definanziamento del sistema universitario.

Le studentesse e gli studenti rappresentano un investimento notevole di risorse pubbliche ma soprattutto oculato perché anche se sostengono solo una parte del costo effettivo degli studi, i vantaggi personali e per la società ripagano ampiamente quanto speso dallo stato e dalle famiglie.

Non a caso, nei paesi socialmente più evoluti (Nord Europa) gli atenei non perdono tempo a chiedere neppure quel 20% di contributo agli studenti e si prodigano per fornire un sostegno finanziario. In un paese come l’Italia, agli ultimi posti tra le nazioni Ocse per numero di laureati, una politica lungimirante dovrebbe essere quella di proteggere l’investimento già in corso, ovvero cercare di aiutare gli studenti ai quali manca ancora qualcosa per raggiungere l’obiettivo laurea, ovviamente senza regalargli nulla agli esami, non certo chiedere ancora più soldi a chi è già in difficoltà.

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