Chi non è mai stato al Festival della Valle d’Itria non conosce alcune cose che, io per primo, ho avuto modo e piacere di comprendere nel corso dell’edizione appena conclusasi (che avevo presentato in questo post). Iniziamo da un dato geografico: Martina Franca, la città che ospita l’oramai celebre festival operistico giunto quest’anno alla sua 43esima edizione, è una piccola cittadina dell’entroterra pugliese che conta circa 50mila abitanti, una cittadina che, puntando egregiamente e in modo assolutamente professionale sul proprio Festival, attira ogni anno, tra melomani e semplici curiosi, turisti da tutta Europa, felici e contenti di assistere a spettacoli degni di nota nel cuore di una regione che ha tanto, tantissimo da offrire: la cultura, e la grande musica, sono il motore di un turismo intelligente, educato, signorile.

Chi giunge a Martina Franca può, con spostamenti di pochissimi chilometri e tra uno spettacolo e l’altro, andare a conoscere luoghi che hanno a dir poco del magico: piccole città come Alberobello e Locorotondo, veramente a un tiro di schioppo da Martina Franca, offrono al visitatore, coi loro trulli e le loro splendide architetture, paesaggi mozzafiato, inseriti nella lista dei Borghi più belli d’Italia o dichiarati Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Spostandosi un po’ più in là si aprono orizzonti marittimi, in comuni come Polignano a Mare, di incredibile e stupefacente fascino, tra cunicoli e stradine che sboccano su terrazze affacciate su uno dei pezzi di mare più suggestivi della costa adriatica.

Un Festival, quello della Valle d’Itria, che non si accontenta mai, proponendo ogni anno, oltre a recuperi degni veramente di nota e su cui a breve, sebbene solo parzialmente, ci soffermeremo, direzioni e maestranze di grande rilievo: basti pensare al direttore artistico, Alberto Triola, incessantemente in cerca di nuove pagine operistiche da portare al pubblico del Festival di Martina Franca, e al direttore musicale, Fabio Luisi, new entry nelle medesime vesti all’Opera di Firenze e musicista più che noto a livello mondiale.

Ma passiamo ora ai contenuti, con due allestimenti che hanno avuto quest’anno il pregio di riportare in auge pagine musicali sconosciute ai più: Un giorno di Regno di Giuseppe Verdi e l’Orlando furioso di Antonio Vivaldi. Cominciamo dalla prima, un’opera interpretata dalle maestranze dell’Accademia di belcanto Rodolfo Celletti di Martina Franca e che a suo tempo, alla sua prima storica dell’ottobre del 1840 alla Scala di Milano, aveva suscitato, malgrado la più che prestigiosa firma, un fragoroso flop.

Un’opera riscattata, potremmo dire, dato l’unanime consenso riscosso quest’anno nella cornice del prestigioso Palazzo Ducale di Martina Franca, e il cui iniziale insuccesso, dovuto a una commistione di motivi politici, poetici e familiari, non lasciò il suo autore, che in quel periodo usciva da una serie di clamorose sciagure, propriamente indifferente: la morte di due figli e, infine, della moglie. Quest’ultima era avvenuta proprio il 18 giugno del 1840 e cioè nel pieno della gestazione della nuova opera. Verdi era praticamente solo, a tal punto da decidere, all’indomani dell’insuccesso di Un giorno di Regno, di abbandonare, se non la composizione (come pare ebbe lui stesso a riferire), quantomeno la casa familiare al Carrobbio, spedire tutti i mobili a Busseto e trasferirsi in una stanza già ammobiliata nella milanese Corsia dei Servi, oggi a tutti nota come corso Vittorio Emanuele.

Un libretto poi, quello di Un giorno di Regno (frutto della penna di Felice Romani), nel quale l’autore delle musiche si può dire non credesse appieno: “Non rifiutai l’invito – a scrivere un’opera buffa, NdA – e Merelli – allora impresario del Teatro alla Scala, NdA – mi diede a leggere vari libretti di Romani che (…) giacevano dimenticati. Lessi e rilessi, nessuno mi piaceva, ma viste le premure che mi si facevano, prescelsi quello che mi parve meno male, e fu Il finto Stanislao, battezzato poi in Un giorno di Regno”.

Queste le parole dello stesso Verdi nel Racconto autobiografico a Giulio Ricordi dell’ottobre 1879. A Martina Franca si è così assistito a un Verdi inedito, un Verdi semisconosciuto, una pagina di vita operistica assolutamente singolare. Il barocco ha poi riproposto una delle sue vette con l’Orlando fuorioso di Vivaldi, e immenso è stato il piacere di ritrovare un’opera così energica, viva, carica di passione, sentimento, ardore: pagine di musica che travolgono ancora oggi, a quasi tre secoli di distanza dalla loro primissima rappresentazione veneziana del 1727.

Ottime (quasi) tutte le voci, in cima alle quali si assesta quella di Alcina, la cattivissima maga protagonista assieme a Orlando dell’intera vicenda. E non mancano momenti di pura poesia, come quello nel quale Ruggiero dolcemente duetta con un flauto, in un’affiatatissima intesa d’amorosi sensi che incanta il pubblico della Valle d’Itria. Gli elementi che poi superano le aspettative sono due sopra tutti: le scenografie, di Massimo Checchetto, e i costumi realizzati dal costumista Giuseppe Palella, pugliese doc per la prima volta coinvolto dalla produzione del festival. A Martina Franca si va per restare, per godere del bello nel bello, per vivere d’arte e grande musica.

La foto in evidenza è di Marta Massafra ed è tratta dalla pagina Festival della Valle d’Itria

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