“Tun-tun”… Ieri notte le ruvide nocche degli agenti del Sebin – formalmente un’agenzia di controspionaggio ma, di fatto, la polizia politica della dittatura – hanno bussato alle porte dei due più noti prigionieri politici venezuelani: Leopoldo López e Antonio Ledezma, entrambi (il primo da appena una settimana, il secondo da più di un anno) agli arresti domiciliari. Ed il rumore è riecheggiato d’acchito in tutto il Venezuela come un ammonimento ed un segnale. Il processo di formazione della nuova Asamblea Nacional Constituyenteuna delle più colossali frodi elettorali della molto fraudolenta storia elettorale dell’America Latina – si era infine concluso. Ed era entrato ufficialmente in vigore quello che, della ANC, da sempre era stato l’ovvio proposito: uno stato di polizia.

Ad annunciare per prima, domenica notte, il grande evento era stata Tibisay Lucena, l’abusiva direttrice del Consejo Nacional Electoral. Abusiva perché, a termini di legge – ovvero, di qualcosa che, in Venezuela, non esiste più da tempo – il suo mandato è in realtà, come quello delle altre tre “pasdaran” chaviste che compongono il Consejo, scaduto molti mesi fa. In queste elezioni, ha comunicato raggiante Tibisay, hanno votato 8.089.320 cittadini, pari al 41,53 % degli aventi diritto. Una cifra che la Lucena non ha esitato a definire “straordinaria”. E che in effetti era (è) straordinariamente – o, con più appropriate parole, ridicolmente – inaffidabile. Otto milioni sono infatti, per il chavismo, la cifra perfetta. Alta quanto basta per superare i 7,6 milioni raggiunti lo scorso 16 luglio dall’opposizione, in un improvvisato referendum che in realtà altro non era che un atto di “disobbedienza civile” contro il tentativo (il tentativo che ieri è andato a buon termine) d’assassinare gli ultimi residui della democrazia venezuelana. E bassa quel che serve per non far ridere i polli e per non privare il “comandante eterno” Hugo Chávez del più prezioso dei suoi primati. Ovvero: del più alto numero di consensi – circa 8 milioni e mezzo di voti – da lui raggiunto nelle presidenziali del 2012.

Tibisay Lucena avrebbe potuto sparare qualunque cifra, avendo in precedenza provveduto, zelantemente seguendo gli ordini del presidente Nicolás Maduro, ad eliminare ogni possibile controllo dei risultati. Fino a ieri – cioè, fino all’avvento della dittatura piena – le elezioni venezuelane erano state decisamente inique se valutate lungo l’arco dell’intero processo. E questo tanto per gli ovvi vantaggi di cui godeva il PSUV, il partito-stato fondato da Hugo Chavez, quanto per le possibili manipolazioni dei registri elettorali. Ma erano sempre state, quelle elezioni, passabilmente affidabili – grazie ad un affidabile sistema elettronico di votazione – nella loro fase finale. Se uno votava pro o contro il governo aveva la certezza che quel voto sarebbe stato contato pro o contro il governo.

Con la comparsa all’orizzonte della ANC, anche questa garanzia è, tuttavia, di fatto scomparsa. Perché i seggi sono stati organizzati in modo che la verifica elettronica delle impronte digitali non potesse funzionare a dovere (questo articolo di Eugenio Martínez spiega assai bene l’arcano). E soprattutto perché il nuovo sistema elettorale – nuovo e sostitutivo di quello che il chavismo aveva fino a ieri definito “il migliore del mondo” – ha trasformato quel che esisteva in una sorta di gioco delle tre tavolette: da un lato una votazione su base “municipale” disegnata per far vincere il governo. E dall’altro una votazione su base “settoriale”. Studenti, pescatori, lavoratori, persone disabili etc… Il tutto sulla base di registri elettorali forniti al Cne dal governo. Il che significa che quello che per il governo è un “lavoratore” può votare due volte. Una come tale (cioè come lavoratore) ed una come abitante del suo municipio. Dettaglio tragicomico: è stato grazie a questo meccanismo che “Nicolacito”, figlio 28enne del presidente Nicolás Maduro – uno che in vita sua non ha mai lavorato – è entrato nella ANC come rappresentante dei lavoratori.

Tibisay ha dunque, da par suo, scelto la cifra giusta. E lo ha fatto senza perdersi in dettagli. Quanti degli otto milioni da lei annunciati sono voti nulli? Nessuna risposta. Ed è un peccato perché sarebbe stato interessante sapere quanti degli elettori sotto ricatto – i dipendenti pubblici minacciati di licenziamento ed i beneficiari dei CLAP, 14 milioni di persone obbligate a procurarsi il cosiddetto “carnet de la patria” per ricevere le borse di cibo razionato – hanno scelto di annullare una scheda sulla quale erano presenti solo candidati del governo che li ricatta. E soprattutto: gli otto milioni denunciati, sono voti, o votanti? Una differenza, questa, fondamentale, visto che almeno il 60% poteva, come spiegato sopra, votare due volte. Sicché, se di voti si tratta, i votanti sarebbero, in realtà, poco più di 3 milioni (il 15% circa degli aventi diritto), una cifra molto vicina a quelle fornite dalle inchieste alle uscite dei seggi e quelle che, prima dell’apertura dei seggi, avevano rilevato le intenzioni di voto.

Così, in ogni caso, stanno le cose. Domenica scorsa si è consumata una frode elettorale le cui dimensioni truffaldine sovrastano, e di parecchio, quelle del referendum con il quale, nel dicembre del 1957, il dittatore Marcos Pérez Jímenez tentò di aggrapparsi al potere. E sbaglia chi pensa che il risultato di questa frode sia un’assemblea costituente. Il risultato è l’abolizione d’ogni legalità costituzionale. Uno stato di polizia il cui “tun-tun” già ha, con il ritorno in carcere di López e Ledezma, cominciato a risuonare. La prossima porta sarà – già era scritto – quella della Fiscal “ribelle” Luisa Ortega Díaz. Il perché lo spiegherò nel post che viene.

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