di Stefano Briganti

In queste ultime settimane impazza sui media il tema “pensioni”. Nel mirino ci sono le prestazioni Inps e il fucile che spara si chiama “diseguaglianza generazionale”. Tre i poderosi cavalli da tiro usati per tirare l’acqua del consenso popolare al sempre più siccitoso mulino Inps.

1. I millennials, ovvero i nati dal 1980 ai primi anni Duemila, andranno in pensione a 70 anni, con pensioni da fame.
2. I padri avranno ricevuto una pensione maggiore di quella dei figli quando questi vi accederanno.
3. Le prestazioni pensionistiche in essere e quelle nuove fino al 2040 sono “drogate” da una componente di “calcolo retributivo” che le tiene e terrà “alte”.

Al netto dei metodi di calcolo (retributivo, contributivo, misto) con i quali si calcola oggi per legge il valore dell’assegno, il sistema pensionistico si basa su due pilastri semplici, ovvero il versamento di un contributo mensile obbligatorio lavoratore-azienda calcolato come una percentuale sul reddito imponibile e la erogazione (al 2017) di un assegno solo dopo aver versato per almeno 43 anni e averne 63 di età. Da questo si deducono due cose ovvie ma mai abbastanza evidenziate: la prima è che più alto è il reddito imponibile (per esempio lo stipendio) più alta è la contribuzione nel “montante contributivo” e la seconda è che più anni si versa e più valore assume il montante stesso.

Ora osserviamo il mondo del lavoro dei millennials. E’ caratterizzato da una discontinuità (ad esempio contratti a tempo determinato, voucher) che i loro padri non conoscevano e da retribuzioni nettamente più basse rispetto a quelle dei padri. Il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha peraltro recentemente certificato che in Italia si guadagna meno che 20 anni fa. Ovvio che se la discontinuità comporta che prima dei 70 anni non si raggiunge il minimo numero di anni contributivi e i salari sono bassi, la pensione arriverà da ultravecchio e sarà da fame.

I padri dei millennials avevano i contratti a tempo indeterminato, gli scatti di anzianità e gli adeguamenti salariali periodici che hanno permesso loro di costituire un montante contributivo crescente con un flusso continuativo nel tempo. Tutte cose scomparse al pari dei dinosauri e sono questi gli elementi che creano la “diseguaglianza generazionale” nella creazione del montante contributivo tra le pensioni di oggi e quelle future.

Ora, invece di risolvere la causa del problema, ovvero il precariato e i salari bassi dei giovani, si vorrebbe ricorrere al prelievo dalle pensioni attuali dimenticando il loro ruolo di “ammortizzatore sociale” per i millennials. E qui c’è il terzo cavallo da tiro, ovvero gli assegni attuali dichiarati troppo “alti” (rispetto a cosa?). Trovo corretto il concetto del calcolo contributivo che però, per Costituzione italiana, difficilmente può essere applicato alle pensioni in essere. Ed ecco che si vorrebbe introdurre anche un “contributo di solidarietà” per le pensioni superiori ad un “tot” (in base a cosa si definirebbe il “tot”?).

Ma dove andrà l’obolo? Ad aumentare il misero montante contributivo dei millennials? E in che modo? Nessuno lo dice. Ma è invece certo e ovvio che questo “contributo” andrà a compensare il “buco” del flusso contributivo dovuto alla continuativa e altissima disoccupazione giovanile; senza tale compensazione per l’Inps sarà impossibile garantire tra dieci anni le pensioni attuali, anche se ridotte dall'”obolo”.

Altro che solidarietà per i millennials, questa è solidarietà per l’Inps camuffata. Chiaramente senza nemmeno indirizzare il problema della discontinuità del flusso contributivo dovuto al lavoro precario dei nostri figli che perciò sempre a 70 anni in pensione andranno. L’unico modo per risolvere la “diseguaglianza generazionale” è garantire un lavoro continuativo e con paghe dignitose ai nostri figli. Ma questo è “troppo complicato” per i nostri politici. Più semplice invece è, come al solito, mettere una pezza attraverso ulteriori prelievi che a medio lungo termine creeranno danni collaterali devastanti.

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