Una “capacità intimidatoria, progressivamente affermata con atti concreti e abituali (visite in gruppo, minacce, estorsioni, pestaggi), che ha garantito sempre più soggezione e omertà in capo a chi ha avuto a che fare con l’associazione, vale a dire un potere diffuso e capillare derivante al clan dalla sola sua esistenza“. È questa una delle caratteristiche dell’associazione capeggiata da Nicola Femia, condannato a 26 anni, tratteggiata nelle motivazione della sentenza del tribunale di Bologna. I giudici, presidente Michele Leoni, hanno accolto l’impostazione del pm Francesco Caleca e il 22 febbraio hanno pronunciato condanne per tutti e 23 gli imputati infliggendo circa 170 anni di carcere e riconoscendo l’associazione di stampo mafioso per alcuni dei condannati, e individuando in Femia, nel frattempo divenuto collaboratore di giustizia, il capo. E nei due figli Rocco Maria Nicola e Guendalina e nel genero Giannalberto Campagna “il cerchio magico”. L’inchiesta era esplosa nel gennaio del 2013 con gli arresti di 29 persone.

Si trattava di un’associazione, scrive il tribunale, “in particolare di tipo ‘ndranghetistico, insediata fuori dai territori tipici della radicazione originaria”. Un gruppo criminale che faceva profitti con il gioco illegale e che era in grado di attuare la “moderna strategia tipica delle organizzazioni mafiose”, cioè iniziare rapporti economici con imprese, farle indebitare e ridurle in uno stato di decozione e poi soggiogarle e rilevarle “contando, come ultima carta vincente, sulla forza intimidatrice del gruppo”. Una forza, appunto, “non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva e obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini le volontà di quanti venivano a contatti con i suoi componenti”. Eccetto un caso, infatti, nessuna delle vittime dei reati ha sporto denuncia, a conferma di una situazione di omertà e assoggettamento.

Nell’associazione si concentravano inoltre “managerialità e familismo, relazioni con ‘facilitatori'” e “collegamenti con funzionari che assicurano una rete di sicurezza svelando indagini in corso o con sedicenti o effettivi appartenenti all’intelligence”, oltre ad “antiche e consolidate relazioni con altre organizzazione mafiose”. La storia dell’indagine inizia l’11 gennaio 2011, quando un immigrato denuncia di essere stato rapito vicino Imola da tre persone che puntandogli contro una pistola, lo minacciarono di fare intervenire “mafiosi calabresi, per metterlo apposto”. Da qui la scoperta da parte delle fiamme gialle di un sistema che arrivava fino in Gran Bretagna e in Romania, dove erano state aperte delle società che gestivano il gioco online secondo il diritto di quel Paese. Femìa e la sua organizzazione, secondo il pm Caleca, commercializzava macchinette con schede truccate così da celare al Fisco l’ammontare reale delle giocate.

Al processo c’erano come parti civili anche l’associazione Libera di Don Luigi Ciotti e Giovanni Tizian, il cronista sotto protezione dopo le intercettazioni, in cui Femìa parlava di lui con un altro degli imputati. Quest’ultimo si era detto deciso “a sparargli in bocca” se non avesse smesso di scrivere del business delle slot machine. A febbraio i giudici avevano disposto un risarcimento da 100mila euro per il giornalista e 50mila per il consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti. Le minacce a sono “un aspetto addirittura eversivo, un attentato alla Costituzione” che stabilisce che la stampa non può essere soggetta a censura. In una conversazione intercettata dalla Guardia di Finanza, l’imputato Guido Torello parlava con Femia di uccidere il giornalista, all’epoca alla Gazzetta di Modena, “colpevole di aver denunciato sulla stampa l’attività criminale dei Femia”, ricordano i giudici. Nell’assegnare il risarcimento i giudici sottolineano come nel fatto in questione “si manifesta in modo ancora più drastico la pericolosità della mafia quale contropotere che tende ad avere il controllo sociale, a tacitare l’informazione e, lentamente ma progressivamente, a inserirsi nelle istituzioni fino a sostituirsi ad esse”.

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