L’olimpo di una delle migliori “scene rock indipendenti” possibili del mondo, che per tre giorni prende armi e bagagli e si trasferisce in una cittadina-bomboniera balneare abruzzese. Non a Roma, né a Milano, né a Parigi, Miami o Melbourne: ma a Vasto. Un Coachella, un Primavera sound in salsa medio-adriatica che da qualche anno catalizza stormi di alternativi, hipster, incrollabili 40-50enni cresciuti con ottimi ascolti su supporti rigidi e millenials “streaming-addicted” magari convinti che Calcutta sia un dio musicale in terra e che l’avvento dei Thegiornalisti segni un epocale spartiacque nella storia del pop.

Si aggiungano la bellezza del posto, il panorama non oleografico che rende pure benissimo in selfie, il mangiare e il bere locali, mare-monti-Pecorino, ed è subito turismo intelligente, in quella che un tempo si era soliti definire “la locomotiva del Mezzogiorno”.

Dal 28 al 30 luglio torna, a Vasto, il Siren festival, in primis un’opportunità di ascoltare “tutti insieme” gruppi che altrimenti ti sarebbe costato un occhio della testa raggiungere, nel nord Italia o in qualche storica rassegna indie europea. Ed è davvero da fritturina di paranza dell’anima la line-up, che quest’anno non cede agli smottamenti nel nuovo mainstream più corrivo, misterioso e insondabile per chi ha varcato la boa delle trenta primavera.

Niente Calcutta (repetita iuvant) e I Cani, come nel 2016, in cartellone, e in fondo si sopravvivrà benissimo anche senza l’epifania vastese di un Tommaso Paradiso; ma un sacco di pescaggi e ripescaggi mirati di levatura. L’effetto viaggio nel tempo non stona mai, in un festival rock.

Dagli Allah Las, dediti tanto al revival psichedelico che a miniature pop psych, freschi di pubblicazione di“Calico Review”, al mito di Apparat (in versione dj), aka Sascha Ring, classe 1978, tra quei giganti dell’elettronica contemporanea che piacciono pure a chi fino a un paio di lustri fa non avrebbe mai messo piede in una discoteca, per questione di principio; dai redivivi Arab Strap, duo di culto scozzese a cavallo tra gli anni novanta e i duemila, pulsioni sintetiche in downtempo con impennate slacker da estasi dei sensi nelle aree di decompressione nei centri sociali che furono, freschi di reunion, ai nostri Baustelle, pop per le masse di gran classe, che quest’anno hanno pubblicato e convinto un po’ tutti con “L’amore e la violenza”.

Anche perché le alternative correnti sono Calcutta, Thegiornalisti, e Brunori Sas, che  passa per il nuovo Lucio Dalla o Fabrizio De André.

E poi, sempre a Vasto, nell’ultimo venerdì di luglio, i Cabaret Voltaire, formatisi oltre 40 anni fa, sinuosi e obliqui, precursori di techno, dub, industrial, house atmosferica; quel gran figo di Jens Lekman, artigiano pop dalla Svezia che stravincerebbe a Sanremo; il danese Trentemøller, con quel tocco malinconico e un romanticismo di fondo molto scuro.

Come se i Depeche Mode e i Joy Division rinascessero oggi. D’estate, in Abruzzo ma già quasi in Molise. A Vasto, la più outsider e imprevedibile delle sirene.

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