Le secche prolungate non sono un’anomalia, ma una ricorrenza. Dopo la più terribile alluvione del XX secolo (1970), Genova iniziò a patire una cronica scarsità d’acqua potabile. Frutto di deficit strutturali e inefficienze di gestione degli acquedotti, per metà pubblici e per metà privati, con reti separate e disconnesse. I consumi avevano però toccato vertici inattesi, con 800mila abitanti da dissetare e un’enorme domanda industriale: le acciaierie consumavano quasi un quarto delle acque addotte ogni giorno in città.

Come ho raccontato in Bisagno. Il fiume nascosto, avevo discusso una tesi sul rischio alluvionale e fui costretto a pubblicare i primi lavori scientifici sulla previsione statistica delle siccità e delle magre; nonché sui criteri di gestione del razionamento idrico, sulla dinamica tra prezzi e consumi e sui livelli di sopportazione degli utenti.

Quando andava bene, l’acqua veniva distribuita a giorni alterni e, in qualche caso, con le autobotti. L’aspra topografia complicava la distribuzione, per via della diversa pressione necessaria a rifornire le varie zone altimetriche. L’uso a singhiozzo delle condotte provocava spesso la rottura dei tubi che, zampillando sul selciato, facevano impazzire la gente già provata dal rifornimento saltuario.

Paradossalmente, chi era allacciato agli acquedotti privati con l’antico sistema della bocca tassata (che risale all’antica Roma) era un privilegiato, potendo contare su un piccolo serbatoio personale per compensare i singulti dell’acquedotto. La siccità sconvolse l’Europa e gli Stati Uniti a partire dal 1975 e durò a lungo nel 1976, con pesanti effetti a grande scala. Nel Regno Unito – dove si vendevano t-shirt con lo slogan “Save water – bath with a friend: risparmia l’acqua, fa’ il bagno con un amico – fu la peggiore crisi idrica del XX secolo.

Come ricorda The Independent: “Gli abitanti del Galles e della parte occidentale dell’Inghilterra furono lasciati senza acqua corrente per la maggior parte della giornata, mentre tutto il paese cuoceva […] L’approvvigionamento idrico nello Yorkshire e in East Anglia fu sostituito da pompe fisse comunali piazzate nelle strade […] L’acqua sporca del lavaggio dei piatti era versata nei water invece di usare lo scarico (…) Il paese fu costretto a fronteggiare il razionamento fino a dicembre (1976)”.

Dal 1975 a oggi, si sono verificati altri episodi che hanno provocato disagi di estensione più o meno vasta. In Italia, l’ultimo dieci anni fa. Il sogno del faraone interpretato da Giuseppe (Genesi: 41, 2-4) descrive bene la ricorrenza dei periodi particolarmente secchi, fonte di carestie, e umidi. Sette anni sono un’approssimazione ragionevole della ciclicità naturale, pur governata dalle leggi del caso. E la soluzione di Giuseppe – creare una riserva in periodo delle vacche grasse per sopportare meglio i sette anni di vacche magre – resta tuttora la più ragionevole.

Oggi, le grandi città sono meno soggette a crisi idropotabile. Perché? Primo, c’è stata una notevole la caduta della domanda, sia per il calo della popolazione di alcuni centri, come Genova, sia per il crollo dei consumi industriali. Oggi, Milano utilizza forse la metà dell’acqua che usava negli anni 60, prelevandola dalla falda, che perciò tende a risalire verso il suo livello indisturbato.

A parità di sistema, quindi le città hanno meno sete. Dal duemila a oggi il consumo idrico pro-capite è sceso del 19% a scala nazionale e nel 2016 l’italiano medio ha consumato ogni giorno 23 litri d’acqua in meno rispetto a quattro anni prima (2012). E il sistema non è più lo stesso perché, anche senza nuove grandi opere, il gestore unico degli acquedotti dovrebbe aver interconnesso gli impianti, unificato le reti, migliorato le prestazioni del sistema: la seconda ragione, quindi, va ascritta a merito dei gestori avveduti.

Stupisce perciò la vulnerabilità che Roma sta manifestando in questi giorni. Come narro nel mio ultimo libro, Bombe d’acqua, gli antichi romani sono stati i precursori dell’ingegneria dell’acqua nella storia del mondo occidentale: la diga in muratura a gravità di Subiaco, che faceva parte di un sistema di tre dighe costruite dall’imperatore Nerone sull’Aniene, stabilì un record mondiale di altezza (50 metri) mai superato, fino alla distruzione del manufatto a causa della piena del 1305.

I romani costruirono i grandi ponti non per il passaggio dei carri, ma per il trasporto dell’acqua, come mostra la madre di tutte le nostre banconote, quella da cinque euro. Per i Romani, il simbolo della ricchezza non era tanto l’oro, quanto l’abbondanza d’acqua. E il 23 luglio, giorno dei Neptunalia, veneravano il dio entro un ciclo festivo teso alla propiziazione divina di fronte ai pericoli della siccità.

Noi ci accorgiamo del valore dell’acqua soltanto quando manca: un valore che non ha prezzo.

Nota bene: a Roma esistono 11 antichi acquedotti di epoca romana e cinque più recenti, di epoca rinascimentale e moderna. I dati Istat indicano una diminuzione del 25% dei consumi idropotabili dal 2001 al 2011, il 10% legato ai cambiamenti tecnologi. Se Roma consuma circa 300 litri al giorno per abitante, come riportano le gazzette di questi giorni, si può stimare in circa 860 mila meri cubi il consumo cittadino, che corrisponde a circa 15 millimetri di caduta del livello del lago di Bracciano, la più grande riserva naturale della città, che si estende per più di 56 chilometri quadrati.

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