Gli abusi di Ratisbona interpellano la gerarchia ecclesiastica italiana. La Baviera non è una lontana landa esotica. Basterebbe ricordare per l’Italia le denunce di tanti allievi sordomuti dell’Istituto Antonio Provolo di Verona, che hanno reclamato giustizia per le sevizie subite, e la successiva scoperta che una catena di violenze sessuali era stata perpetrata anche in una “filiale” dell’Istituto Provolo a Lujan in Argentina.

Dunque le nostre autorità ecclesiastiche non hanno nessun motivo di arroccarsi in quella posizione di tenace passività, che fu scelta a suo tempo dalla Conferenza episcopale italiana, quando emanando le Linee-guida sulla materia non solo scelse di non impegnare categoricamente i vescovi a denunciare i crimini di cui fossero venuti a conoscenza, ma decise anche di non mettere in piedi strutture, che facilitassero l’emergere di crimini e monitorassero il fenomeno a livello centrale. C’è anche un altro modo, ampiamente praticato, di lasciare che le cose non cambino.

E’ quello a cui abbiamo assistito in questi giorni. Dichiarare che “bisogna andare avanti nel fare pulizia”, rimanendo poi fermi. La lezione di Ratisbona è di una chiarezza esemplare. Si rende giustizia alle vittime quando – avvertito di uno scandalo – il vescovo locale cerca attivamente la verità. Il cardinale Mueller prima di essere prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede (appena licenziato da papa Francesco) è stato vescovo di Ratisbona dal 2002 al 2012. Diffusesi le denunce sugli abusi nel coro dei ragazzi della cattedrale, se l’era cavata con la formazione di una commissione di esperti e una lettera pastorale in cui sollecitava le vittime a farsi avanti. I risultati non si erano visti.

La svolta è avvenuta con il nuovo vescovo Rudolf Voderholzer, che ha incaricato una personalità indipendente, l’avvocato Ulrich Weber, a fare un’indagine approfondita. Nell’arco di due anni, ricercando e ascoltando molti testimoni, Weber ha compilato un dossier documentatissimo con il risultato di provare (dal 1945 ai primi anni ’90) oltre cinquecento casi di maltrattamenti punitivi nel convitto aggregato al coro e 67 casi di violenze sessuali. Sono state individuati 49 responsabili.

Lezione nr.1: si trova la verità sugli abusi solo se l’autorità ecclesiastica si impegna a cercarla attivamente, non stando seduta ad aspettare che le vittime trovino la forza di superare il proprio trauma.

Lezione nr.2: l’indagine va affidata a una personalità indipendente, dal momento che decenni e secoli di omertà hanno segnato l’atteggiamento delle gerarchie ecclesiastiche rispetto a questi crimini.

Lezione nr. 3: le vittime vanno risarcite dalla diocesi, che non ha esercitato la giusta e necessaria vigilanza sul clero e sugli addetti laici, non trincerandosi (come fanno i vescovi italiani) dietro al fatto che la responsabilità penale è personale.

Lezione nr.4: l’operazione verità deve essere compiuta a prescindere dall’eventuale prescrizione dettata dalle leggi dello Stato e, se qualcuno dei responsabili ecclesiastici è ancora vivo (non sembra essere il caso di Ratisbona), va processato secondo la legge canonica e privato del sacerdozio.

Perché il punto fondamentale – come chiarì papa Ratzinger nel 2010 nella sua Lettera ai cattolici d’Irlanda – è che la preoccupazione centrale delle gerarchie ecclesiastiche deve essere rivolta alle vittime e non alla tutela del prestigio della Chiesa in nome del quale per secoli sono stati occultati crimini. Occuparsi delle vittime significa in concreto rendere loro giustizia, portando alla luce pubblicamente le responsabilità dei preti criminali e punendoli. Questo è il punto.

Recentemente è stato documentato che in Sicilia il prete Paolo Turturro, punito con il carcere per atti pedofili e salvatosi invece da un’altra condanna per una violenza provata, ma prescritta, continua tranquillamente a seguire, celebrando messa, una sua comunità frequentata da adulti e da minori.

La questione Ratisbona interpella dunque la Conferenza episcopale italiana perché se le tante vittime ancora nell’ombra hanno un sacrosanto diritto alla giustizia, allora è il momento che la nuova dirigenza della Cei – rafforzata dalle nuove nomine di vescovi che da Palermo a Bologna a Milano vengono citate per la loro sensibilità di parroci – prenda in mano la situazione con spirito nuovo. Non c’è bisogno di inventare nulla. Le Conferenze episcopali più concrete in Nord- Europa e nel Nord-America hanno già fissato una serie di prassi efficaci.

1. Creazione nelle diocesi di équipe di sacerdoti e psicologi a cui una vittima può rivolgersi.

2. Istituzione di un vescovo che a livello nazionale segua le diocesi per verificare che le linee-guida in tema di contrasto agli abusi siano applicate.

3. Messa in campo di un sistema di risarcimenti.

4. Pubblicazione di un rapporto annuale sulle azioni intraprese per tutelare e rendere giustizia alle vittime di violenze sessuali.

5. Apertura di indagini affidate a personalità indipendenti nel caso di denunce su catene di violenze in particolari comunità o istituzioni.

Non c’è nulla da inventare, solo da mettersi al lavoro. A suo modo è un’occasione storica per la Cei.

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