di Clash City Workers *

Sciopero totale di tutti i servizi in appalto, presidio all’ingresso della struttura, corteo per le strade del centro città, solidarietà da lavoratori e lavoratrici di altri comparti. Non stiamo parlando dei metalmeccanici o degli operai della logistica, ma dei lavoratori della Scuola normale superiore di Pisa (e della Scuola superiore di studi universitari e di perfezionamento Sant’Anna, altro polo di eccellenza presente in città), che affrontano il secondo sciopero nel giro di poco più di un mese, dopo quello del 5 giugno.

Uno stato di agitazione che costa tanto ai singoli dipendenti, se pensiamo che con il contratto nazionale qui applicato, il Ccnl Multiservizi, la paga base varia tra i sei e i sette euro l’ora e i part-time involontari si contano a decine, cosicché il salario mensile non arriva spesso ai 750-800 euro.

Lo sciopero è stato indetto dall’assemblea dei lavoratori e dalle organizzazioni sindacali di riferimento (Filcams-Cgil e Cobas sono le sigle più rappresentative), coinvolgendo i dipendenti dei servizi di portineria, pulizia, ma anche delle mense e delle biblioteche, su cui pende come una spada di Damocle il momento terribile del cambio appalto.

Parliamo della procedura di affidamento dei servizi cosiddetti “esternalizzati”, ossia dati in gestione a terzi, cooperative o aziende private. Allo scadere del vecchio appalto, la stazione appaltante (la Normale e il Sant’Anna, in questo caso), emette un bando, che fissa dei requisiti. Il soggetto che risponde meglio a quei requisiti ottiene l’appalto del servizio e ne diventa il nuovo gestore, fino al successivo cambio appalto.

Chi garantirà però che la nuova azienda subentrante nell’appalto riassumerà gli stessi lavoratori di prima, che conoscono il posto di lavoro, hanno stretto legami di amicizia e solidarietà reciproca, hanno maturato esperienza, anzianità di servizio, diritti e scatti salariali?

La risposta è semplice: nessuno. E i rischi sono molteplici, dalla riduzione delle ore con conseguente decurtazione salariale (già adesso, diversi lavoratori percepiscono 500-600 euro di stipendio), all’introduzione del contratto a “tutele crescenti” – che vuol dire essere privati del diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo – per lavoratori presenti nella stessa struttura da 10 o 20 anni. Per questo le richieste di chi sciopera sono la garanzia del mantenimento del posto di lavoro e delle precedenti condizioni salariali e normative, a prescindere da chi vincerà l’appalto.

Sono istanze semplici, le forme di un riconoscimento (minimo) della dignità del lavoro, eppure le dirigenze amministrative delle due Scuole non riconoscono legittimità alle richieste dei lavoratori (nonostante esistano importanti precedenti, come i protocolli di intesa firmati da regione Toscana e regione Piemonte con i loro rispettivi dipendenti in appalto).

E qui sta il punto. Se chi governa la Normale e il Sant’Anna, due delle più importanti eccellenze nel campo della formazione e della ricerca a livello internazionale, non è in grado di percepire la frustrazione di coloro che, pur sorreggendo sulle proprie spalle la vita materiale di entrambe le strutture, sono costretti in un limbo di precarietà, c’è qualcosa che si è lacerato nel senso comune dell’intellettualità di questo paese.

Si è cioè fortemente indebolita quella relazione di cui parlava Antonio Gramsci in carcere, la connessione sentimentale tra intellettuali e popolo, tra chi produce la vita materiale e riconosce i segni del lavoro (e dello sfruttamento) sulla propria pelle, ma non ha tempo e spesso voce per comprendersi e parlare di sé, e chi ha tempo e voce, ma non sente, non percepisce il grido di dolore dei dannati della terra con cui pure si trova ogni giorno a contatto, e quindi non può ulteriormente elaborarlo.

Se non si ricuce questo strappo (come pure alcuni studenti e ricercatori con difficoltà hanno provato a fare, lanciando ben due appelli interni in solidarietà ai dipendenti in appalto) a niente varranno gli scioperi dei docenti universitari annunciati tra il 29 agosto e il 31 ottobre 2017. Se non si ricuce questo strappo, gli scioperi ufficialmente annunciati a salvaguardia dell’università pubblica avranno un sapore profondamente corporativo.

Se vuole salvare l’istruzione pubblica – che è tale per garantire un’istruzione di eccellenza a tutte le classi sociali, compresa la più numerosa, quella dei lavoratori – l’accademia deve uscire dalla sua torre d’avorio, mischiarsi non tanto con l’imprenditoria e la finanza, ma con le istanze e i bisogni di quel popolo che afferma, per ora solo a parole, di voler salvare dall’ignoranza e dal mutismo.

* collettivo di lavoratrici e lavoratori, disoccupate e disoccupati

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