La strage di via D’Amelio

Più controverso il caso Scarantino: per la pubblica accusa si sarebbe inventato di volta in volta “bugie e falsità, accogliendo i suggerimenti degli investigatori e fornendo le risposte che si aspettavano per un tornaconto personale consistente nell’uscire dal carcere e avere dei benefici”. Un passaggio che aveva fatto scoppiare un pesante botta e risposta tra i pm e l’avvocato di parte civile, Fabio Repici: secondo la lettura dell’accusa, infatti, il depistaggio sarebbe stata opera esclusiva di Scarantino, un seminalfabeta bocciato tre volte in terza elementare, imparentato con un mafioso ma considerato un poveraccio persino dai suoi stessi vicini di casa alla Guadagna, una borgata a sud di Palermo.

Poteva un tipo del genere inventarsi da solo un avvelenamento dei pozzi di tale portata, capace di prendere in giro decine di investigatori, magistrati e giudici? Per la pubblica accusa nissena sì, dato che Scarantino nella requisitoria era stato definito un “soggetto criminale” abbastanza “scaltro” da imbastire da solo il copione di bugie sulla ricostruzione della strage. Alla fine i giudici se la sono cavata applicando il comma terzo dell’articolo 114 del codice penale: l’attenuante cioè della “determinazione al reato” che, diminuendo la pena prevista per la calunnia, ha fatto scattare la prescrizione. In pratica il balordo della Guadagna è stato indotto a fare le sue false accuse. Già ma da chi? I giudici nisseni non lo dicono. Lo faranno probabilmente nelle motivazioni della loro sentenza, con la quale hanno ordinato anche la trasmissione in procura dei verbali dell’udienza. Formula che indica come i magistrati insistano ancora una volta nell’indagare sulla matrice istituzionale del depistaggio. Una pista che fino a questo momento è stata osteggiata da più parti. È come spesso capita in indagini del genere, ha portato a poco. Cristallizzati, però, rimangono alcuni fatti, che comprendono alcune domande mai risolte

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