Mark Zuckerberg, Bill Gates e Elon Musk sono d’accordo: per contrastare gli effetti dell’automazione sul mercato del lavoro serve un reddito universale garantito. La domanda sorge spontanea: per quale ragione i più grandi imprenditori dell’industria hi-tech si fanno promotori di una battaglia dai risvolti sociali epocali? Forse si sentono in qualche modo responsabili?

In un certo senso potrebbe essere proprio così. Non è un caso se tra le prime sette società per valore di mercato cinque operano nel settore dell’Itc (Information Communication Technology). Apple è la prima al mondo con 754 miliardi di dollari, seguono Google-Alphabet con una capitalizzazione in borsa di 646 miliardi e, al terzo posto, Microsoft con 540 miliardi.

Fino a pochi anni fa le società leader producevano beni materiali, a cominciare dalle industrie petrolifere e dell’automotive. Ma ci sono due aspetti che caratterizzano le società digitali e le differenziano da quelle del passato: la massimizzazione dei profitti e, di contro, una scarsa redistribuzione in termini occupazionali. Facendo un esempio, i dipendenti impiegati da Amazon sono solamente 154.000 (stima 2015), meno della metà dei dipendenti Fiat Chrysler, i quali generano un fatturato di 113 miliardi di dollari; una somma nettamente inferiore a quella totalizzata dal gigante dell’e-commerce, che nel 2016 ha fatturato oltre 136 miliardi di dollari.

Per avere un’ulteriore idea dell’impatto di questa rivoluzione tecnologica basti pensare che nel 2015 il fondatore di Amazon, Jeff Bezos, ha superato per capitalizzazione la concorrente Walmart, che continua a essere leader nel settore della grande distribuzione, ma di dipendenti ne ha circa 2,2 milioni in tutto il mondo. Che ne sarà di loro quando Amazon avrà monopolizzato il settore, visto l’investimento massiccio di “Amazon Go” sui market fisici automatizzati?

A proposito di automazione: dopo i droni per le consegne volanti (in tutti i sensi) che sostituiranno gli spedizionieri e i 15.000 robot Kiva che hanno già sostituito i magazzinieri, adesso anche gli appartenenti all’ultimo anello della catena iniziano a essere minacciati: i cassieri. Non c’è dubbio che nei prossimi anni ci si debba preparare a un’ondata di disoccupazione e di povertà diffusa. I segnali ci sono tutti.

A dir poco impressionante è il trend sulle diseguaglianze sociali prospettato dalle relazioni dell’Oxfam: nel 2014 le 80 persone più ricche del pianeta detenevano l’equivalente della ricchezza di 3,6 miliardi delle persone più povere. Oggi, a distanza di soli tre anni, la ricchezza di metà della popolazione mondiale risulta concentrata nelle mani di 8 persone soltanto. Venendo all’Italia, dal 2002 ai giorni nostri il numero dei miliardari è triplicato (da 13 a 39), ma nel contempo è triplicato anche il numero di poveri (Fonte Oxfam Italia).

Pochi giorni fa, durante la cerimonia per la laurea ad honorem attribuitagli dall’Università di Harvard, il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg ha dichiarato: “Quando non hai la libertà di prendere la tua idea e di trasformarla in un’impresa storica, siamo tutti a perderci”. E ha aggiunto: “Dovremmo esplorare idee come il reddito minimo universale per dare a tutti una sicurezza nello sperimentare nuove idee”. Nulla di più condivisibile, se non fosse che per trasformare questa utopia in una proposta concreta occorrono enormi risorse economiche.

Il caso vuole che gli stessi ispiratori di questa corrente di pensiero siano nel contempo i più grandi evasori della storia, con sedi legali nei paradisi fiscali che fruttano ogni anno incalcolabili miliardi di dollari di maggiori introiti. E’ quindi apprezzabile che questi colossi intendano fare la loro parte nel ridurre le diseguaglianze, in primis attraverso una più trasparente gestione fiscale. Tuttavia è importante che gli Stati sovrani non lascino fare, ovvero non “appaltino” il welfare all’Alphabet di Google, che da anni sta sperimentando forme di reddito garantito su un campione di persone.

Purtroppo finora la politica ha dimostrato di non sapere produrre proposte efficaci. Spesso i governi si sono limitati a ingaggiare una competizione spietata per attirare nel proprio Paese queste società mediante condizioni fiscali iper-agevolate: un’indecente gara al ribasso, spesso sleale, combattuta persino all’interno della stessa comunità europea (Irlanda docet). E’ tempo che la politica si riappropri di una visione e assuma un ruolo attivo. In poche parole, prendiamo esempio dalla Finlandia.

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