Fino a ieri erano tutti bravi ma domani – per legge – lo saranno di più. Sempre solo sulla carta, in tagli da 100 euro in su. Uno degli ultimi decreti Madia riforma la valutazione dei dipendenti statali introducendo la facoltà di licenziamento per scarso rendimento certificato da tre valutazioni negative consecutive. La ratio è che da domani anche chi non rende nel pubblico impiego va a casa, al pari dei lassisti patentati o dei furbetti del cartellino: stop alle promozioni di massa con ricchi premi e cotillon, avanti con merito ed efficienza. Le buone intenzioni devono vedersela però con la storia italiana, minata dalla scarsa cultura della valutazione che ha creato un popolo di premiati a prescindere, dove trovare un dipendente dallo scarso rendimento è come imbattersi in una mosca bianca, sempre che il giudizio negativo non sia dovuto allo scarso gradimento del capo verso il sottoposto.

E’ una storia antica che non ha più voltato pagina dalla legge Bassanini in poi, quando si è inteso superare l’automatismo degli scatti di anzianità alla maniera anglosassone, introducendo premi per il raggiungimento di obiettivi prefissati. Nei vent’anni successivi il sistema è stato interpretato all’italica maniera, con la fissazione di obiettivi e valutazione del loro conseguimento rimessi alle stesse amministrazioni, mai al giudizio dei cittadini (salvo le simpatiche faccine di Brunetta, poi rottamate) o di soggetti realmente terzi rispetto all’ente sotto esame. Così vanno le cose ancora oggi e in futuro, perché i premi di risultato sono e restano essenzialmente il frutto di accordi sindacali che determinano nel bilancio preventivo degli enti un budget di incentivo alla produttività che a consuntivo si tratta solo di distribuire, con l’unica accortezza – a volte – di lasciare qualche centesimo sul piatto, a titolo simbolico di intervenuta valutazione.

Partiamo dalla Presidenza del Consiglio, dati aggiornati al 16 febbraio. I dirigenti di prima e seconda fascia che hanno conseguito risultati inferiori al 100% sono stati appena l’11%, solo uno su dieci non ce l’ha fatta a centrare la perfezione. Gli altri sono tutti promossi a pieni voti. Così l’importo medio della retribuzione di risultato sulla platea dei dipendenti, anno di incasso 2016, è stato mediamente di 14.668 euro e l’ammontare delle somme attribuite a titolo di premio è stato di 3,8 milioni sui 2,9 stanziati. Per essere precisi: non sono stati distribuiti 76,254 euro. I migliori, ça va sans dire, sono i 22 “apicali” presso le strutture della presidenza: hanno conseguito tutti gli obiettivi fissati l’anno prima e incassato (dato aggiornato al 23 febbraio scorso) una retribuzione di risultato massima che va dai 32.900 ai 34.600 euro a testa. Per un totale di 612mila euro.

Pescando di fiore in fiore si arriva al ministero dell’Agricoltura, dove il personale eccelle e la raccolta premi va a gonfie vele. La valutazione delle performance per i 58 dirigenti di seconda fascia, aggiornata al 20 marzo scorso, dice che sono stati riconosciuti (e pagati al 31 dicembre) 1.658.972,29 di euro tra retribuzione di risultato e premialità. Giusto 29mila euro meno rispetto all’ammontare complessivo dei fondi stanziati per i premi produttività. Per la serie “ti piace vincere facile”, si può notare che il punteggio oscilla tra 80 e 100, mai di meno. E non c’è dirigente che sia sotto la soglia minima. Altrettanto generoso il trattamento riservato agli apicali di prima fascia con 10 beneficiari che si dividono 320mila euro. Ed eccoci alla base della piramide. Anche sui 618 dipendenti di ruolo non si sbaglia: 3.775.870 i milioni stanziati in conto competenza, 3.771.555 quelli effettivamente distribuiti e pagati a fine anno. E tutti a chiedersi chi sia stato a rovinare il risultato pieno, lasciando sul piattino la bellezza di 4.314 euro.

Andiamo a fondo sul sistema di valutazione individuale. Prendiamo il Dipartimento delle Politiche europee ed internazionali dello sviluppo rurale che conta 17 dirigenti e 177 dipendenti di ruolo. Sono stati sottoposti tutti a rigorosa valutazione (molti con colloquio individuale) e uno soltanto ha avuto un punteggio inferiore al 60%, sette tra il 60 e l’89% e ben 162 hanno ricevuto un giudizio positivo tra il 90 e il 100%. Insomma, l’ingegno italiano sembra si sia concentrato tutto qui. Ma i talenti sono anche all’ispettorato centrale che si occupa di frodi che conta 18 dirigenti e 735 non dirigenti. Rinfranca tutti sapere che 707 hanno avuto un punteggio di valutazione non inferiore al 90% e solo 5 sotto il 60. Meglio ancora tra il personale che circonda il ministro, dove si concentra la creme dell’intellighenzia di Stato: nessuno tra 74 dipendenti del gabinetto del ministro ha avuto una valutazione inferiore al 60% e uno solo (i colleghi lo cercano ancora con sospetto) inferiore all’89%.

Passiamo al ministero dell’Economia. Tra i 167 obiettivi strategici per il 2016 c’era anche quello di “contenere il costo del debito pubblico” in capo al Dipartimento del Tesoro con un budget per missione di 2,8 milioni di euro l’anno. Nella valutazione delle performance si dice che è stato centrato al 100%. Peccato sia l’anno in cui il rosso ha toccato un nuovo record storico. Vero è che gli interessi sul debito sono calati, ma il merito è del quantitative easing della Bce. Del resto l’economia in generale va così così ma i dipendenti del Ministero dell’Economia non ne hanno risentito più di tanto: il dato aggiornato al 31 marzo 2017 dice che, a fronte della valutazione degli obiettivi conseguiti, i 571 dirigenti hanno incassato 7.347.814,28 euro in premi a fronte dei 7.439.952,31 stanziati come ipotesi di retribuzione accessoria. In pratica sono rimasti in cassa 92mila euro. Facendo la media del pollo al premio (12.868), significa che meno di 10 dirigenti sull’intera platea sono rimasti all’asciutto. Al personale non dirigente, per totali 10.315 dipendenti, è andato l’intero premio di 20.181.765,22. Non è rimasto un euro. E vallo a trovare quello che è stato valutato negativamente.

Infiniti altri esempi si potrebbero fare, ma il punto è sempre lo stesso: bene che si possano licenziare gli statali “improduttivi”, male che la valutazione sia rimessa ai loro capi e a organismi di vigilanza non del tutto indipendenti perché “interni” alle amministrazioni. Il decreto poteva essere l’occasione per dare seriamente voce in capitolo ai cittadini, che sono poi i destinatari finali dei servizi. La riforma si propone questo obiettivo affidandosi a questionari che vuol dire carta e burocrazia, con eventuale questionario sulle performance dei somministratori. Stesso discorso per la giusta idea di introdurre la categoria degli “obiettivi generali”, che identificano le priorità delle pubbliche amministrazioni coerentemente con le politiche nazionali: e chi pone l’asticella del successo? Ci sarà davvero qualcuno che fissa/controlla obiettivi che mettano a rischio i ricchi premi?  Tipo il numero di carte di identità emesse, il calo del debito pubblico, la quantità di processi trattati dal giudice? Sarebbe un giudizio universale. Ma la politica, come dimostra il balletto sulla legge elettorale, è la prima a temere il giudizio.

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