Abbiamo la legge. Abbiamo nel codice penale italiano un reato che si chiama “tortura”. Non dovremo più fare capriole con le parole, dire che sono minacce, lesioni, maltrattamenti in famiglia. Quando si abusa su qualcuno che si ha in custodia si commette tortura. “Chiamiamola tortura”. Era questo il titolo dell’ultima delle tante campagne portate avanti da Antigone per l’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento italiano, lanciata nell’aprile del 2014 e arrivata a 55.000 firme. La nostra prima proposta di legge risale al 1998. Chiamiamo le cose con il loro nome. Serve a preservare la verità storica e, come si è visto nei troppi casi di impunità di cui il nostro Paese si è reso complice, serve a punire adeguatamente un crimine orrendo.

Dovremmo essere contenti e basta di quanto accaduto oggi in Parlamento, vale a dire il voto definitivo della legge che introduce il reato di tortura nel nostro codice penale. Ma non può essere così, dopo il bruttissimo dibattito che ha preceduto questo risultato e con il testo di legge che è stato approvato. Da sempre abbiamo auspicato che la Convenzione Onu contro la tortura facesse da guida al legislatore italiano. Ma così non è stato. Troppe sono le discrepanze tra gli impegni presi in sede internazionale e la legge votata dal nostro Parlamento.

Le Nazioni Unite definiscono la tortura come un crimine proprio di un pubblico ufficiale. È solo chi porta una divisa che può diventare un torturatore. Gli altri devono essere puniti secondo altre fattispecie di reato. La tortura è un crimine di Stato ed è importante che come tale venga riconosciuto. La tortura è il crimine di chi dovrebbe legittimamente custodire qualcuno e invece abusa di questa persona per ottenere informazioni o per altri motivi. Ma in Italia non è così. Da noi il pubblico torturatore si confonde con il torturatore privato, che non aveva alcun fondamento legittimo nel tenere in custodia la sua vittima. Le forze dell’ordine non hanno permesso che un reato formalmente definito per loro potesse entrare nella nostra legislazione. Non hanno capito che quel reato serve a distinguere il poliziotto onesto da quello disonesto. Hanno pensato fosse un’onta al proprio potere aderire a quanto scritto dalle Nazioni Unite. Con buona pace di chi a Genova nel luglio del 2001 ha subito quella ‘macelleria messicana’ che tutti conosciamo.

La definizione Onu di tortura è stata purtroppo disattesa dalla norma italiana anche altrove. Affinché ci sia tortura deve esserci crudeltà – un concetto non ovvio da definirsi e dimostrarsi – oppure devono esserci violenze o minacce gravi. Perché utilizzare il plurale? Quale esigenza ha sentito il legislatore di lasciare all’eventuale processo penale la possibilità di divincolarsi tra una violenza, due violenze, tre violenze? E inoltre: tali violenze, affinché si abbia tortura, devono cagionare acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico. Ma quando un trauma psichico è verificabile? Quali elementi lo differenziano da un trauma psichico non verificabile, accaduto magari tanti anni prima? Parole. Ma parole che tuttavia vogliono costituire un segnale di potere e di impunità per chiunque indossi una divisa, a prescindere dal suo operato. Era sufficiente tradurre in italiano la definizione della Convenzione Onu contro la tortura del 1984 e mettere da parte la creatività.

In ogni caso adesso abbiamo una legge. Da oggi la tortura è un crimine del nostro ordinamento. La speranza è che in poco tempo il brutto dibattito di questi mesi sarà dimenticato. Resta la legge. Una legge che avremmo voluto ben differente, ma che adesso c’è. Vedremo dunque se e come verrà applicata. Dipende anche dalla cultura degli operatori della giustizia. Noi monitoreremo ogni processo per violenza da parte di pubblici ufficiali e ci impegneremo affinché i giudici applichino la tortura, laddove tortura c’è stata.

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