La Corte dei Conti, al termine dell’istruttoria iniziata nel 2016, ha deciso di citare in giudizio Morgan Stanley e quattro alti dirigenti del Tesoro tra cui l’attuale responsabile del debito pubblico Maria Cannata. I magistrati contabili, scrive l’agenzia Reuters, contestano loro un danno erariale complessivo di 3,9 miliardi di euro per la chiusura e ristrutturazione di derivati sul debito pubblico. Alla banca americana vengono richiesti 2,7 miliardi di danni, mentre Cannata, il direttore generale del Tesoro Vincenzo La Via e gli ex ministri Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli dovrebbero pagare circa 1,2 miliardi.

“La prima udienza è stata fissata per aprile 2018”, riferisce la fonte di Reuters. Il processo dovrebbe concludersi entro il luglio del prossimo anno. In caso di condanna e di mancato pagamento dei danni la Corte può procedere anche al pignoramento di beni. Un portavoce del Tesoro si è limitato a esprimere “piena fiducia nel lavoro svolto dai dirigenti e fiducia che il lavoro della magistratura possa fare chiarezza sugli episodi oggetto di accertamenti”. Morgan Stanley non ha commentato ma ad agosto 2016, quando il caso era emerso, aveva definito le accuse prive di fondamento. Nessun commento da Siniscalco e Grilli.

Tra fine 2011 e inizio 2012, al picco della crisi dei debiti sovrani e dopo che S&P aveva declassato il rating della Penisola, il ministero dell’Economia ha versato alla banca americana circa 3 miliardi in conseguenza di una clausola di “Additional termination event” presente in alcuni contratti. La clausola, secondo la Corte dei Conti, consentiva la conclusione dei contratti a discrezione di Morgan Stanley: al verificarsi di alcune condizioni la banca poteva farsi restituire il valore di mercato dei contratti, imponendo ingenti costi allo Stato. Cosa che si è puntualmente verificata. Così i derivati hanno avuto, tra 2013 e 2016, un impatto negativo sul bilancio pubblico di 24 miliardi: 13,7 sono esborsi netti mentre 10,3 sono riclassificazioni statistiche, quelle che Eurostat chiama ‘net incurrence’.

Il Tesoro ha sempre sostenuto di aver utilizzato i derivati come assicurazione contro il rischio di un aumento dei tassi, soprattutto durante gli anni peggiori della crisi finanziaria. Ma, come spiegato dalla procura della Corte dei Conti a febbraio, alcuni dei contratti “evidenziavano profili speculativi che li rendevano inidonei alla finalità di ristrutturazione del debito pubblico – l’unica consentita dalla normativa per operazioni in derivati – non essendo ammissibile per lo Stato, investitore pubblico, assumersi rischi rilevantissimi”. E, stando a una perizia richiesta dai pm romani che stavano conducendo un’indagine (poi archiviata) sui contratti sottoscritti dal ministero dell’Economia con le banche d’affari a partire dagli anni Novanta, “è lecito ipotizzare che l’indifferenza” del Tesoro rispetto ai rischi “sia figlia del fatto che il ministero dell’Economia ignorasse l’esistenza della suddetta clausola”. L’esperto cita anche una testimonianza di Maria Cannata secondo cui lei stessa non avrebbe “avuto conoscenza di tale clausola sino al momento in cui il Tesoro ha dovuto assorbire il pacchetto di contratti della ex Infrastrutture spa”, finanziaria pubblica che nel 2005 è stata incorporata da Cassa depositi e prestiti.

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