Non è affatto vero che il sistema sanitario italiano ha a disposizione enormi risorse trasferite dallo Stato. Sono insufficienti i 113 miliardi del Fondo sanitario, ripartiti tra le Regioni per il 2017. Con la cifra non è possibile garantire a tutti soccorso, cure e servizi efficaci. Accentrare o meno i poteri in sanità è adesso un problema secondario. È una preoccupazione fissa nel governo, che aveva provato a restituire allo Stato la potestà legislativa sulle norme generali a tutela della salute.

Per Costituzione, la salute è diritto fondamentale. Con il federalismo introdotto nel 2001, la sua tutela trova invece pesanti limiti: non è più piena, ma si ferma a una soglia minima – modificabile – per tutto il territorio nazionale. Tale misura è legata agli equilibri di finanza pubblica imposti dal sistema dell’euro, che, producendo indebitamento con l’emissione privata della moneta, ha sottomesso diritti e servizi ai conti pubblici; anche con i successivi Mes, Fiscal compact e pareggio di bilancio in Costituzione.

Se il diritto alla salute è fondamentale, non può essere compresso. Oltretutto, le Regioni non possono garantire quello standard minimo (Lea), perché la distribuzione del Fondo sanitario avviene dal 1999 con un criterio incostituzionale, sulla base del calcolo della popolazione pesata. I soldi per la sanità delle Regioni non sono assegnati sul fabbisogno reale indicato dai dati (certificati) di morbilità, ma sul numero degli abitanti per fasce di età, sul presupposto che i giovani siano più sani.

Ciò ha determinato profonde disparità tra Nord e Sud, che in genere la politica non conosce o non riconosce. In Calabria, tra le Regioni in rientro dal disavanzo sanitario, i minori trasferimenti ricevuti dal ’99 totalizzano circa due miliardi di euro, soldi che la Regione ha speso per l’assistenza dovuta ai malati cronici e che lo Stato non ha più corrisposto. Il riassunto problema riguarda in largo le Regioni meridionali, che dallo Stato hanno avuto minori risorse per la tutela della salute prevista dalla Costituzione e dalle fonti subordinate. Tuttavia, domina la solita narrazione del Sud sprecone, mafioso e incapace di gestire la sanità pubblica.

Imbrogli, abusi e spese folli sono un male da curare ovunque, ma in genere non si dice quanto incidano nel bilancio complessivo della sanità pubblica, che per buona parte va via in stipendi di medici, infermieri, Oss, tecnici e amministrativi.

Altra gravissima questione nell’ombra è la carenza cronica di personale sanitario. La Legge 161/2014 recepisce una direttiva europea del 2003 sui turni e i riposi obbligatori nelle strutture sanitarie pubbliche e private. Fu approvata con undici anni di ritardo per evitare sanzioni dall’Europa. Curiosamente, l’entrata in vigore fu spostata al 25 novembre 2015, ma ad oggi non sono effettive le assunzioni necessarie al rispetto della legge.

All’uopo in Calabria servono, per esempio, almeno 1298 unità di personale, ma la preoccupazione della politica, che ne rinvia l’assunzione, è una: metterci mano. I sanitari devono assistere i malati, ma rischiano la condanna in tribunale, se sforano sui turni e se per stress commettono errori.

In breve: per tutelare la salute, lo Stato e/o le Regioni devono potersi indebitare, il che è impedito dal sistema monetario vigente, che, con buona pace di parte del mondo accademico, è l’origine dei guai e pesa molto più della diffusa inadeguatezza della politica e della dipendenza dei dirigenti dal potere che li nomina.

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