di Lorenzo Fioramonti* e Roberto De Vogli

Nell’ultimo decennio, in particolare dal crollo finanziario del 2008 e dall’inizio della crisi del debito pubblico in Europa nel 2010, la crescita economica si è affievolita in tutto il mondo. In alcuni paesi, come la Grecia e l’Italia, è scomparsa quasi del tutto per molti anni, mentre l’Europa in generale resta stagnante. Anche in Cina, le attese di crescita economica sono più che dimezzate negli ultimi anni, mentre nei paesi cosiddetti “in via di sviluppo” si succedono cicli di crescita (dovuti soprattutto allo sfruttamento delle risorse naturali) a recessioni prolungate.

Ma che significa davvero che l’economia di un paese cresce? Tradizionalmente, i paesi misurano la crescita sulla base del Prodotto interno lordo (Pil), che in realtà è un indicatore molto parziale e sempre più anacronistico del progresso di una nazione. Infatti, il Pil misura solo le transazioni che avvengono all’interno dell’economia di mercato, escludendo tutte le attività produttive che le persone svolgono in modo informale, all’interno delle famiglie e nelle comunità locali, che però sono essenziali per creare coesione sociale. Inoltre registra come segno di sviluppo l’aumento di qualsiasi spesa sostenuto dai consumatori e dallo Stato, senza distinguere tra spese che aumentano il benessere e quelle che lo diminuiscono. L’aumento delle spese militari genera crescita, come la ricostruzione a seguito di catastrofi (si pensi al terremoto di Amatrice) e la spesa sanitaria pubblica o privata. Non è forse un caso che gli indicatori di longevità e la qualità di vita siano debolmente correlati con la crescita economica una volta superata una certa soglia di Pil.

Il Pil fornisce informazioni sbagliate anche rispetto ai costi ambientali e sociali della crescita economica. Immaginate un paese che decidesse di tagliare e svendere tutti gli alberi per produrre legname, produrre merci usa e getta a ciclo continuo generando tonnellate di spazzatura e aumentasse l’orario di lavoro esponenzialmente (o sostituisse completamente la manodopera umana con dei robot). Tutto questo darebbe uno slancio in avanti alla crescita. Il Pil, invece, non si muoverebbe minimamente (o molto poco) se lo stesso paese decidesse di attuare politiche per la conservazione delle proprie foreste promuovendo un’economia circolare che produce beni di lunga durata e riutilizza e ricicla merci già in circolo. Ma lo sviluppo sostenibile, che tutti i paesi dichiarano di voler realizzare, richiede un impegno forte per la protezione dei beni ambientali, la promozione della coesione sociale e la riduzione delle disuguaglianze economiche.  Il modello di crescita attuale, che enfatizza l’importanza del Pil, sta invece producendo gli effetti opposti.

Nell’era dell’economia digitale poi, affidarsi troppo al Pil per misurare il miglioramento della capacità di un paese di promuovere accesso a beni e servizi non ha più molto senso. Oggi le nuove tecnologie hanno cambiato le regole del gioco in molto settori. Pensiamo ad esempio ai sistemi open source per l’accesso di mappe online, l’informazione e la conoscenza (si pensi a Wikipedia) e l’hardware (come nel caso tutto italiano di Arduino). Queste innovazioni riducono i costi e migliorano considerevolmente la performance economica di un paese, ma non necessariamente fanno crescere il Pil.

Non si può pensare di creare prosperità nel XXI secolo con le stesse categorie economiche dei secoli passati. Oggi dobbiamo incoraggiare una nuova economia che favorisca la circolarità di beni e servizi, invece del consumismo e dell’inquinamento. Dobbiamo sostenere le imprese (soprattutto quelle di piccolo e medio taglio), che producono localmente creando posti di lavoro di qualità, invece di continuare a mantenere la grande industria distruttiva che elimina posti di lavoro e non paga mai il conto delle conseguenze ambientali e sociali delle proprie azioni.

Secondo le Nazioni unite i principali settori industriali del mondo (dalle grandi multinazionali dell’energia fossile e della produzione alimentare commerciale) distruggono più risorse naturali di quanto facciano profitti, per una perdita totale di capitale naturale pari a 7.3 trilioni di dollari. Secondo il Fondo monetario internazionale, le compagnie di combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) ricevono circa 10 milioni di dollari al minuto in aiuti statali, per un totale di 5.3 trilioni di dollari per anno. Gli effetti sulla salute dell’inquinamento atmosferico causano circa 1.6 milioni di morti premature ogni anno e il cambiamento del clima è stato identificato dalla rivista The Lancet come la principale minaccia alla salute globale. Perché allora continuare a sostenere queste industrie con sussidi pubblici, pagati con le nostre tasse?

L’economia del futuro è un’economia del benessere. Un’economia dominata dalle piccole imprese, da una forma di artigianato post-industriale basato sulla tecnologia avanzata (si pensi alle stampanti 3D), dal lavoro intelligente che permetta a tanti di lavorare meno ma lavorare tutti e passare dal ruolo di consumatori a quello di co-produttori di beni e servizi che acquistano. Un’economia in grado di riallacciare i propri legami con la società e con gli ecosistemi naturali che sono la fonte primaria del nostro benessere.

*Lorenzo Fioramonti è professore di Economia politica dell’Università di Pretoria e autore del libro ‘Presi per il Pil: Tutta la verità sul numero più potente del mondo’ (L’Asino D’Oro, 2017), membro della Alliance for Sustainability and Prosperity (Asap)

 

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