Superiamo l’equatore verso i placidi paesaggi del New Jersey di Jim Jarmusch. Cosa c’è di meno poetico di un autista di linea chiamato Paterson di stanza a Paterson? Una vita prosaica e abitudinaria, spezzata dalla sensibilità di un piccolo eroe-taccuino pronto e penna usata come un ferretto per scassinare la realtà, evadendo da un mondo di parole inutili verso un altro di versi essenziali. Niente immagini trionfali. Sceneggiatura asciutta ai limiti dello scarno e uno sguardo più lineare di un semaforo rosso sono la sfida di Jarmusch. Righe di poesia in sovrimpressione su sfondo urbano: questo l’unico vezzo estetico del montaggio. Il resto è luce naturale, tempi ammorbiditi da dialoghi domestici che circondano come pulci la strenua contemplazione del protagonista. Il Faccione, le mani d’autista e da segreto scrivàno sono di un Adam Driver, sempre ben immerso nel cinema indie. I versi nel film sono del poeta Ron Padgett. Sfumano il quasi neorealismo di Jarmusch che nelle note di regia ha scritto: “Paterson vuole rendere omaggio a ciò che di poetico esiste nei piccoli dettagli, nelle variazioni e nelle interazioni quotidiane. Si propone come antidoto al cinema cupo, drammatico o incentrato sull’azione. Si tratta di un film che dovremmo lasciarci scivolare addosso, come le immagini che osserviamo dai finestrini degli autobus”.

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Pablo Larraín, Ken Loach e Jim Jarmusch: il cinema d’autore tra storia, prosa e poesia

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