Le foto sono tante. Le conosci a memoria, dopo averle sfogliate e ripensate in questi 15 anni. Le riguardi e sei di nuovo lì, in Erasmus. L’anno che – anche se resisti e non lo vuoi ammettere – ti ha cambiato la vita. Ha mandato in crisi (in pezzi) amori delicati o destinati a finire, rimasti a distanza, attaccati alla cornetta della cabina telefonica aspettando rassicurazioni che non arrivavano. Perché la voglia, per chi era via, era solo quella di riattaccare e godersi l’imprevisto, l’inatteso, il furore della libertà. Inebriante, perché per la prima volta era per così tanto tempo, così lontano. Ha allentato per alcuni mesi i legami con gli amici di una vita, perché ti sei scoperto. Di pongo, non di roccia. Credi di essere l’unico a sentire così forte le emozioni di quell’anno, la rivoluzione che stavi inaugurando, il senso di insofferenza verso tutti e tutto al ritorno. E invece a passarci, come te, è stata una schiera di (ex) giovani, che ha iniziato trent’anni fa, allo stesso modo, a stravolgersi la vita.

Allora partire era una missione per me, studentessa di Lingue a Bologna. Andavano in Erasmus in tanti, ma non tutti, “ma se studi qui come fai a non andare via?”. Poi il mondo chiamava, era da scoprire, c’era fame di vita, inesperienza da sopprimere e curiosità da appagare. Genitori (che ancora mi mantenevano) contrari o scettici, “vai via di casa quando riesci a pagarti le spese”. Faccio lavoretti vari ma, diciamocelo, non riuscirei a vivere da sola. Quindi, fosse per loro, si resta a casa. Ma il bando chiama e bisogna rispondere: prima scelta Granada, vanno tutti lì, è gettonatissima. Poi Siviglia. Vai con la due. Ma proprio in Spagna? Sì, l’Inghilterra costa troppo, fa freddo e fare festa costa. In Andalusia, no. Quindi si vince e si parte. Mai andata a vivere da sola prima, mai andata così lontano da sola. Scelgo un appartamento a caso, non troppo lontano dalla facoltà. Gli inquilini sono altrettanto a caso e, dicendo che siamo un italiano, un’italiana, un austriaco, un tedesco e uno spagnolo sembra una barzelletta ma è tutto vero. Tutti diversi come si crede di essere quando hai vent’anni, tutti in cerca di qualcosa che si scoprirà al ritorno o forse dopo molto tempo.

Diventare inseparabili era questione di pochi giorni, di qualche settimana. Si passa in un amen dallo status di sconosciute meteore solitarie a quella di amici, che sia per mesi o per poche ore, per una festa, per vedere l’alba o per inchiodarsi all’ennesimo botellon, dove la mente e il cuore regalano spaccati che la sobrietà si sogna. Sembra tutta superficie, sembra. Ma non lo è. Passa il tempo, vivere tutti insieme in un appartamento da momentanei expat unisce e dimezza i tempi di confidenza, che non immaginavi mai potesse arrivare a livelli tanto sublimi dopo così poco. Acuisce le tensioni. Insomma, dà la sensazione di appartenere a una nuova famiglia. Che ha i suoi rituali.

Dal Risiko notturno e il tabellone coi punti appeso in casa, alla sveglia mai prima di mezzogiorno e agli spuntini sostanziosi tra chorizo e tostadas alle ore più improbabili. E francamente non si capisce come facciano alla Facultad de Filologia a iniziare le lezioni alle 8 del mattino. “A Bologna, almeno, iniziano alle 9”. Decine di foto nostre, appese in casa, sui muri. Il gruppo che diventa talmente stretto da fare selezione sullo zerbino a chi può e non può frequentare la casa. E’ un gioco, un X Factor di altri Erasmus che (in)segna la selezione naturale che avviene nella vita. Qui, però, è più concentrata. Da casa passano studenti da Europa, Stati Uniti, Sudamerica. Chloe, la belga che ha la mia età ma ha già fatto un anno in Messico e lo spagnolo lo sa da dio e non studia neanche Lingue. Ariana, cilena che non si sa perché sia lì ma adora Hayao Miyazaki (era l’anno de La città incantata), e poi Magda, minutissima tedesca ipertatuata e biondo platino che parlando spagnolo con la erre moscia prima ti chiede gli appunti poi invita tutta la famiglia a una festa impagabile in una tipica casa sevillana, patios y flamenco. E che alla fine si sposa un sivigliano e rimane lì, quando tutti torneranno a casa. Tante le meteore all’università e durante le uscite, troppe, ti saziano.

Poi la famiglia, i cinque di quella casa, dove l’unica femmina ero io. Coccolata e senza toccare un fornello per un anno. Per loro, soprattutto, è stato meglio così. Una confidenza viscerale nata e cresciuta con la condivisione del tempo e delle feste, prima della noia arrivata come una batosta dopo sei mesi, perché non si può sempre vivere così. Con l’università in stand by, – “alla fine per gli esami recupero tutto nella sessione di settembre e non vado fuori corso” – l’ombra del ritorno che si avvicina con l’estate e dopo l’abbuffata il bisogno di silenzio. Di capire cosa fare dopo, a parte il tran tran degli esami che ti aspettano al varco. Alla tormentata gestione emotiva del rientro tra le mura di casa dopo un anno di evasione. In qualche modo il passaggio dall’euforia alla quotidianità, fatta anche dei chili di troppo dell’alcol che adesso, tutti e cinque in massa, è ora di smaltire in palestra. Un quadretto di crisi che è anche uno scatto verso l’età adulta.

Si ammazza il tempo, si studia (poco), si legge (tanto). Si viaggia in bus verso la costa del Sol, Lisbona, Madrid e Barcellona, qualche uscita fuori porta anche per respirare aria diversa. I bisogni di sempre arrivano anche qui, e arriva anche il senso di solitudine, nonostante la difficoltà sia rimanere soli. Arriva anche ora che le persone intorno sono diverse, sono altre, e adesso – alloranon potresti immaginarti la vita senza di loro. Altri compagni d’appartamento avrebbero scritto una storia radicalmente diversa, altre meteore, serate alcoliche, sedute in salotto tra sigarette, divano e verità nascoste pure. E poi c’è sempre una colonna sonora. Allora c’erano David Bisbal, Notwist, Smashing Pumpkins, Smiths, Amaral, David Bowie, Zweiraumwohnung, Moloko. Era il sottofondo della vita, delle serate che iniziavano a notte fonda e che preannunciavano sempre l’esplosione di qualche scintilla emotiva, di meraviglia o stupore. La sensazione di essere la parte di un tutto talmente insostituibile e originale che quando andiamo al cinema a vedere L’appartamento spagnolo usciamo incazzati e in silenzio perché lì ci sono tutti gli stereotipi. Ma lì ci riconosciamo benissimo anche noi, uno a uno. Siamo unici e siamo format? Ma se sfoglio ancora quelle foto, sento che eravamo speciali nella moltitudine. Che lo siamo stati tutti. E che l’incanto di quell’anno e le frustrazioni del ritorno ci hanno resi quello che siamo. Mille di questi Erasmus.

Ps. Grazie a Paola e Sara per avermi fatto tornare in Andalusia per un po’.

Ps2. La foto è di Niel, mi compañero de piso. Vienna, 2009.

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