A capire che dovevo alzarmi e scappare c’ho impiegato circa cinque secondi: avevo gli occhi puntati sul maxischermo di piazza San Carlo a Torino, la mia squadra aveva appena subito il terzo gol dagli avversari, gol che certificava la sconfitta; ed ecco io non potevo crederci. Distrattamente avevo distinto un rumore sordo provenire dal centro della piazza, uno scoppio quasi ovattato, difficile da riconoscere, poteva essere un petardo sì, ma anche una scossa di terremoto o una folata di vento molto forte. Avevo deciso di non darci peso, ero lì ancora a disperarmi perché Cristiano Ronaldo esultava. In quei cinque secondi di inerzia – e di silenzio irreale – ho visto la folla allargarsi attorno a un punto e avvicinarsi sempre di più a me che ero lì, seduta a terra in un angolo, proprio sotto al maxischermo della finale di Champions League, Juve-Real Madrid.

Nei dieci secondi successivi ho corso più veloce che ho potuto, urtando transenne e auto senza sentire il minimo dolore. Avevo qualcosa di più importante da fare: dovevo scappare da non so cosa, non so chi. Con i polpastrelli di due dita sono riuscita ad attaccarmi alla t-shirt di Andrea e a mettermi in salvo (da non so cosa, non so chi) e mettere in salvo lui. Dietro di noi, Bianca e Michele erano scomparsi nel giro di un attimo.

Siamo finiti in via XX settembre dopo essere scampati non a una ma a tre ondate di persone urlanti. Nessuno sapeva da cosa stesse scappando, ma tutti sapevamo che era terrorismo. Non avevamo il minimo dubbio: ci guardavamo in faccia e ci ripetevamo che stava succedendo a noi, proprio a noi, che era arrivato il nostro turno. C’era un ragazzo scalzo, molto alto che, appoggiato a un’auto dei carabinieri, gridava contro “questi stronzi terroristi”; ce n’era un altro, su di giri, che continuava a dire che “dobbiamo ribellarci, noi italiani, a quest’invasione perché poi vedi cosa succede”; c’erano due ragazze in lacrime: in piazza quel sabato sera erano in sei, avevano perso quattro amici.

Intanto riusciamo a sentire Michele, sta bene: lui che era seduto accanto a noi, si era alzato velocemente ed era corso verso casa, poco distante dalla piazza. Bianca invece al telefono non risponde.

Ho pensato di tutto, che era stata colpa mia, che potevo evitare di andare in piazza quella sera, che ci avevo messi in pericolo per una “stupida” partita. Intanto intorno a noi arrivavano decine di ragazzi feriti, con le maglie bianconere sporche di sangue; in molti erano scalzi. Nessuno sapeva cos’era successo, avevano corso perché lo avevano fatto tutti. A uno di loro ho dato dei fazzoletti, doveva tamponarsi un taglio profondo e verticale, lungo tutta la gamba destra. Qualche minuto dopo ci è venuta incontro una coppia napoletana: lui piange, lei no, lo consola, lo tranquillizza. Nella calca aveva perso il tutore che portava al ginocchio operato, ora camminava zoppicante ma era sorridente, cercava di scherzare con il suo ragazzo parlando della figuraccia della Juventus. Erano venuti apposta da Napoli, perché vedere la Juve vincere a Torino è tutta un’altra cosa. Intanto il telefono di Bianca è isolato, ormai sono al tentativo di chiamata numero 15.

Non sappiamo ancora cosa sia successo, non abbiamo il coraggio di nasconderci in un bar e neanche di tornare in piazza. Ma non vogliamo andarcene, vogliamo capire perché le persone si sono ferite, perché è scoppiato l’allarme. Scopriremo solo molto tempo dopo che non era successo niente di quello che temevamo: ci eravamo spaventati per una non-bomba, la folla aveva corso per proteggersi dalla folla. E infatti più di 1500 persone si sono ferite così, rotolando sui cocci di vetro a terra nella piazza, schiacciati da chi nel panico calpestava qualunque cosa si trovasse sotto ai piedi.

Siamo andati a dormire alle 4 di mattina, distrutti da una giornata lunghissima e da una serata ancora più lunga. Avevo dei lividi su una gamba, l’urto con quelle transenne aveva lasciato qualche segno. Bianca aveva risposto ai nostri messaggi quaranta minuti dopo la ressa: era rimasta in piazza, si era incastrata tra le due colonne della Chiesa di Santa Cristina e aveva assistito a tutta la scena. Da quella posizione era riuscita anche a girare dei video, video che avete visto mezz’ora dopo su ilfattoquotidiano.it.

L’abbiamo capito: sabato sera a Torino non c’è stato un attentato ma per noi che eravamo lì ne aveva tutta l’ambientazione, la verosimiglianza, le istantanee. E’ stata la versione attenuata di un’esperienza che ci auguro di non vivere mai. Ma non posso non pensare alle facce sconvolte dei ragazzi che scappavano: in questi mesi il terrore lo abbiamo accumulato dentro di noi, quella sera lo abbiamo vissuto. La bomba non serviva.

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