Milano. Una coppia di tunisini con due bambini di 3 e 5 anni trascina un numero impressionante di valigie. Dentro ci sono 4 anni di vita tra Svizzera e Germania. “Dublin, Dublin”, fanno segno con le dita. Sono stati identificati in Italia: per il regolamento di Dublino devono essere accolti nel nostro Paese. Poco importa se nel frattempo hanno vissuto altrove.
All’arrivo a Milano hanno consigliato loro di rivolgersi al Centro Aiuto Stazione Centrale del Comune (Casc), in via Ferrante Aporti. Troppo tardi. Sono le 9 di sera, gli uffici chiudono alle 20. Provano a bussare all’ex Hub di via Sammartini, un chilometro più in là. Ma le direttive del Comune sono chiare: da quando, il mese scorso, è stato riconvertito in centro di accoglienza per richiedenti asilo, l’ex Hub può ospitare 120 migranti. Non uno di più. I piccoli tunisini piagnucolano, sono a digiuno dalla mattina. Gli operatori di Fondazione Progetto Arca, la onlus che gestisce la struttura, sgomberano un tavolo e riscaldano quattro piatti di pasta. Ma nel dormitorio no, non possono accoglierli. In attesa della riapertura del Casc l’alternativa è la strada.

Qualche ora prima, alle 19.30, la stessa sorte tocca ad altri due “dublinati”, un nigeriano e un maliano. Impossibile trovare un posto in accoglienza a ridosso della chiusura degli uffici. Devono ripresentarsi il mattino dopo alle 8. I due si avviano verso i giardini della stazione con le loro poche cose. Uno zainetto, un borsone di plastica con un manico rotto. Nemmeno loro hanno mangiato, l’Europa ce li ha restituiti a pancia vuota. Uno dei due piange. “Si rivolgono a noi circa 30 migranti al giorno”, dice la coordinatrice del Centro Aiuto Silvia Fiore. “Qualora ne abbiano diritto, come i dublinati, vengono inseriti nei vari centri di accoglienza della città; in caso contrario in centri temporanei. Ne abbiamo collocati un terzo”.
Tra gli arrivi imprevisti in via Ferrante Aporti c’è anche un ventenne del Darfour, il viso segnato da cicatrici. È sbarcato in Sicilia meno di una settimana fa, subito dopo si è messo in viaggio verso Nord. Non ha documenti, né bagaglio. Solo la tuta di ordinanza fornita allo sbarco e un paio di scarpe troppo piccole. Gli mettono in mano un foglio con l’indirizzo dell’ufficio immigrazione della Questura di Milano. È lì che deve andare, dicono. Ma sono quasi le sette di sera, a quell’ora non troverà nessuno. Sempre che riesca a capire come raggiungere la Questura. Nel frattempo lo aspetta la strada.

“La chiusura dell’Hub e la sua riconversione in centro per richiedenti asilo è stata dettata dall’esigenza di garantire un’accoglienza degna a chi ne ha diritto e di scoraggiare quei migranti che hanno già intrapreso un percorso in altre città italiane, quindi sono di pertinenza di altri Comuni,  o vogliono oltrepassare i confini con mezzi propri, finendo per incrementare i traffici dei passeur”, spiega l’Assessore alle Politiche Sociali Pierfrancesco Majorino. “Entro l’anno avremo 1150 nuovi posti Sprar, di cui 150 per minori. La formula su cui puntiamo è un’accoglienza rigorosa e di qualità, non più concentrata in grandi centri ma diffusa sul territorio. Nei giorni scorsi abbiamo collocato 25 siriani, tutti famiglie con bambini”. Poco prima del tramonto allo sportello del Casc si presentano due minorenni afgani. Sostengono di avere viaggiato per tre giorni nascosti nella stiva di una nave, senza cibo né acqua. Arrivano dalla Grecia. Un curdo fa loro cenno di seguirlo. “Sleep, sleep”, “dormire”, dice indicando la stazione. “I profughi sotto i 18 anni sono di pertinenza del Pronto Intervento Minori”, spiegano al Casc. “Qui da noi non vengono”. Evidentemente ai giovani afgani è sfuggito il passaparola. Oppure sono stati male informati.

di Anna Vullo, riprese e montaggio Barbara Leonardi

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