Aprile 2007, nell’Accademia pontificia delle Scienze Henry Kissinger parla a un seminario a porte chiuse sulla situazione geopolitica. “Il centro di gravità mondiale si trasferisce sul Pacifico”, spiega. Pechino esige il pari equilibrio con l’Occidente. “Credo che l’ascesa della Cina sia inevitabile – continua – e dobbiamo imparare cosa possa significare per il mondo”. Ma c’è un nodo storico-politico, scandisce l’ex Segretario di Stato americano che spinse il presidente Nixon a riconoscere la Cina comunista: la Cina storicamente è sempre stata autoreferenziale. Mentre l’Europa, nel suo passato, ha praticato l’equilibrio delle potenze, la Cina non ha mai fatto questa esperienza. L’impero cinese ha sempre dominato i suoi vicini, tranne quando era debole. Bisogna puntare sulle nuove generazioni cinesi, conclude Kissinger, perché credano nella “possibilità della cooperazione” con l’ Occidente.

Dieci anni dopo la situazione si è rovesciata. Trump spinge gli Usa ad arretrare di fronte alla globalizzazione, la Cina l’abbraccia. La visione di Kissinger si concretizza: la Cina sta imparando cosa significhi operare in un “concerto di potenze”. Trump esalta il sovranismo protezionista e il presidente cinese Xi Jinping spiega a Davos che il protezionismo è “come chiudersi in una stanza buia: si tiene fuori il vento e la pioggia, ma anche l’aria”. Trump ritira gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sui tagli alle emissioni che provocano il surriscaldamento climatico, e il premier cinese Li Keqiang annuncia una cooperazione rafforzata con l’Unione europea, dichiarando che la Cina “continuerà a mettere in atto le promesse fatte” sui tagli alle emissioni.

In questo scenario è caduto il seminario della Comunità di Sant’Egidio (insieme all’Università cattolica e alla World History Academy) sui rapporti tra Chiesa cattolica e Cina. Rapporti segnati da 40 anni di avvicinamenti e allontanamenti, disgeli e rigeli. Ma non è il passato quello che conta in questa fase storica completamente nuova. Andrea Riccardi ha sottolineato che non ha più senso considerare la prospettiva delle relazioni tra Santa Sede e Pechino con gli occhiali della guerra fredda, quasi si trattasse ancora della presenza del cattolicesimo in un “paese comunista”. Il tema è un altro: impostare i rapporti tra Chiesa cattolica e una nazione in rapida trasformazione, un paese multiculturale in cui – va ricordato – c’è una forte espansione di un cristianesimo neopentecostale, un paese che ha una storia che comincia ben prima dell’avvento di Mao.

Certo, esiste la questione della decennale pretesa politica di Pechino di permettere sul suo territorio solo Chiese e comunità religiose “indipendenti” da un’autorità centrale estera. Esiste la lunga prassi di vescovi nominati attraverso manovre della cosiddetta Associazione patriottica, che riunisce vescovi e clero ubbidienti al regime. Esiste la duplice dimensione di una Chiesa ufficiale e di una Chiesa clandestina, formata da vescovi ordinati unicamente con l’autorizzazione del Vaticano. Di fatto l’Associazione patriottica dei cattolici cinesi (organismo governativo) insiste sull’elezione dal basso di vescovi leali nel confronti del governo.

Ciò nonostante ci sono state parecchie volte nomine di vescovi avvenute di comune intesa tra Santa Sede e Pechino. E ancora, tanti vescovi “ufficiali”, nominati “illegittimamente”, poi hanno chiesto in segreto (e ricevuto) la legittimazione papale.

Insomma la situazione, dietro le quinte, è in movimento. Con papa Francesco il dialogo è ripartito subito, specialmente perché – come ha ricordato il professore Agostino Giovagnoli – per il pontefice gesuita la Cina non è un luogo lontano e ostile ma un protagonista mondiale che può “irradiare cultura e contribuire alla pace”.

Una bozza di compromesso per la nomina dei vescovi esiste già da oltre un anno. Prevede che i vescovi “eletti” dalle diocesi siano “presentati” al Papa dalla Conferenza episcopale cinese (ufficiale). Potrebbe essere l’avvio di una soluzione – come ha detto il reverendo Peter Chou, uno dei relatori del seminario di Sant’Egidio – a patto che al pontefice sia riservato un diritto di veto. Sottigliezze che la diplomazia vaticana e quella cinese, figlie di esperienze millenarie, possono dipanare.

Ma il discorso in questo fase turbinosa del XXI secolo andrebbe rovesciato completamente. Non guardando più alla vicenda solo dal punto di vista degli interessi religiosi della Santa Sede, ma degli interessi geopolitici della Cina. Può una potenza affacciatasi di slancio sulla scena internazionale (si pensi alla nuova “Via della Seta” che unisce Oriente e Occidente o alla Banca asiatica d’investimento e infrastrutture creata da Pechino nel 2014) – può una potenza del genere ignorare il valore sociale e politico di un confronto ravvicinato con un organismo di un miliardo e duecento milioni di affiliati come la Chiesa cattolica, presente nei cinque continenti con una infinità di istituzioni?

Tocca a Pechino decidere oggi, liberandosi definitivamente dalla paura – che pure c’era ai tempi della rivolta di Tienanmen nel 1989 – di una “Solidarnosc” cattolica cinese potenzialmente eversiva. Entrare nel Grande Gioco internazionale dell’era contemporanea significa interloquire con soggetto geopolitico rappresentato dall’istituzione cattolica. Non è questione di fede. Solo di realismo.

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