di Francesca Scoleri 

Qualche anno fa, Bernardo Provenzano ricevette una visita in carcere dall’allora Presidente della Commissione speciale antimafia del Parlamento Europeo, Sonia Alfano. Durante quell’incontro, Provenzano, fu sollecitato a raccontare “ciò che sapeva”. A detta della Alfano, Provenzano lasciò aperto uno spiraglio spingendosi addirittura a chiedere un colloquio fuori dal carcere.

I presunti buoni propositi di Provenzano, furono stoppati subito. In seguito le sue condizioni si aggravarono anche a causa di quelle che furono definite “cadute dal letto”. Il boss è poi morto nel luglio scorso mentre versava da mesi in stato vegetativo. Quello stesso Stato che, per 43 anni, lo aveva lasciato libero di muoversi in Italia e all’estero, sfoggia forza e determinazione col vegetale inerme tenendolo al regime detentivo. Nessuna morte dignitosa per chi ormai non può più nuocere rivelando segreti inconfessabili.

L’attuale indignazione verso la possibile scarcerazione di Riina è più che lecita dal momento che non versa in condizioni particolarmente gravi. Avrei, però, voluto cogliere la medesima indignazione davanti ad altri fatti simili o addirittura più gravi. Mi avrebbero restituito l’immagine di un popolo informato e non dormiente, in grado di provare moti di repulsione per la sostanza dei fatti e non solo per il nome “Riina”.

Il passaggio dal 41 bis alla libertà che ha interessato Rosario Cattafi ad esempio; un esponente della famiglia Santapaola del quale la condanna presa in primo grado stabiliva fosse “il reggente”, quella di secondo grado invece, lo definiva “un semplice mafioso”. Da qui, la scarcerazione immediata. Inoltre, veniva sentenziato che il Cattafi facesse parte di Cosa nostra, ma solo fino al 2000. E poi? Fu redenzione?

Rosario Cattafi non è un semplice mafioso. E’ a lui che il vice capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Di Maggio, si rivolge per poter comunicare con Nitto Santapaola, al fine, racconta, di indurre Cosa nostra a porre fine alla stagione delle stragi. E sempre lui, viene indicato dal pentito Carmelo D’Amico come mandante dell’omicidio di Attilio Manca, il giovane urologo di Barcellona Pozzo Di Gotto che avrebbe operato Bernardo Provenzano di tumore alla prostata, a Marsiglia.

La morte di Attilio Manca è stata liquidata come “suicidio da overdose”, ma è solo la copertura di accordi trattati da mafia e pezzi deviati dello Stato; accordi che non conosceremo mai fino a quando lo Stato continuerà a trattare: la possibile scarcerazione di Riina fa intendere questo. E intanto, mentre Riina si accomoda all’uscita, la famiglia Manca attende sia fatta luce sull’omicidio del figlio. Nonostante le continue testimonianze raccolte “incidentalmente” nei processi per mafia, la Procura interessata, quella di Roma, si ostina a non aprire indagini.
“Dignità” è una gran bella parola ma come non si può accostarla al nome di uno stragista, in egual modo, non si può accostare al nome di un Paese costantemente debole coi forti e forte coi deboli.

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