“Io capisco gli imam che non vogliono celebrare il suo funerale e condivido la loro scelta, perché è necessario dare un forte segnale politico”. A parlare è Valeria Khadija Collina, madre di Youssef Zaghba, uno dei tre terroristi che la notte fra sabato e domenica hanno ucciso sette persone a Londra. Valeria, italiana convertita all’Islam da 26 anni, racconta in un’intervista esclusiva all’Espresso la perdita del figlio, ma anche la sua battaglia per “dare un messaggio ai familiari delle vittime e ai non musulmani”, anche se significa non celebrare i funerali del figlio. “Chiedere il perdono non vuol dire nulla, per questo io prometto che dedicherò la mia vita per fare in modo che non accada più”, ha detto la donna. Perciò Valeria intende aiutare altri genitori a “riempire il vuoto che possono incontrare i loro figli”, per evitare che si perdano, come è successo a Youssef, sedotto da Internet e dalle “persone sbagliate” incontrate a Londra.

Valeria racconta all’Espresso che fra una decina di giorni sarebbe dovuta andare in Inghilterra per festeggiare la fine del Ramadam, ne avevano discusso al telefono giovedì 1 giugno, due giorni prima dell’attentato. Ma da quella telefonata aveva perso i contatti con il figlio: “Con il senno di poi mi rendo conto che quella nei suoi piani era la telefonata di addio. Pur non avendomi detto nulla di particolare, lo sentivo dalla voce”. Il giorno seguente né il padre né gli amici di Londra sono riusciti a contattarlo, e la madre aveva denunciato la sua scomparsa alle autorità. La notizia dell’attacco di Londra non le aveva destato particolare allarme: “Solo dopo ho scoperto che gli identificati erano suoi amici e mi sono detta che magari si stava nascondendo dalle autorità”. Gli agenti della Digos di Bologna però hanno bussato alla sua porta la mattina di martedì 6 giugno per portargli la notizia della sua morte. “Con loro ho sempre avuto un buon rapporto e anche oggi sono stati molto umani”, commenta Valeria, che aveva già conosciuto gli agenti quando il figlio aveva tentato di partire per la Siria lo scorso anno. “Mi disse che sarebbe andato tre giorni a Roma, lo accompagnai a Bologna e qualche ora dopo mi chiamarono dall’aeroporto per raccontarmi il tutto”. Il ragazzo infatti aveva destato sospetti: un bagaglio troppo leggero per un simile viaggio e un biglietto di sola andata.

La madre dichiara di non avere idea dell’affiliazione allo Stato Islamico: “Mi mostrò qualche video sulla Siria, ma non mi parlò mai di andare a combattere”. L’idea che aveva della Siria era una sorta di illusione, “una sua fantasia” plasmata su ciò che trovava navigando in Internet: “Per lui la Siria era un luogo dove si poteva vivere secondo un Islam puro. Gli ho sempre detto che c’erano cose orribili che non gli mostravano”. La madre è convinta che a far smarrire il ragazzo siano stati Internet (“È da lì che arriva tutto”) e gli incontri fatti a Londra: “Ha frequentato lì le persone sbagliate, quel quartiere non mi ha mai trasmesso serenità. Ci sono stata e non mi è piaciuto”.

Fino a quel momento, secondo la madre, Youssef viveva una vita normale da studente di 22 anni: “Né in Italia né in Marocco, dove studiava informatica all’Università di Fes, si era mai lasciato trascinare da qualcuno. Aveva però Internet ed è da lì che arriva tutto”. Ripercorrendo il percorso del figlio, conclude: “Io ce l’ho messa tutta e penso che lui sia stato logorato all’interno. Abbiamo sempre controllato le amicizie e verificato che non si affidasse a persone sbagliate”. Per il futuro è determinata a dedicare la sua vita per impedire che un’altra famiglia viva il suo stesso dolore: “Dobbiamo combattere l’ideologia dello Stato Islamico con la conoscenza vera e io lo farò con tutte le mie forze”.

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