CASTROVILLARI – Le rondini svolazzano a grumi, si accapigliano in gomitoli per poi liberarsi come tanti atomi impazziti in direzioni lontane. Sembrano scintille che bruciano veloci il loro volo. A fine maggio, toccando festa della Repubblica e finale di Champions League (la Calabria è fucina di juventini), Castrovillari da 18 anni fa rima con Primavera dei teatri, festival che è riuscito a catalizzare energie del palcoscenico e a portare uno sguardo su quest’angolo sotto al Parco Nazionale del Pollino, a 30 chilometri dal mare ma sempre legato alla terra. Qui i porcini spuntano come rose in un giardino. Quest’anno da queste vie è passata la carovana rosa del Giro d’Italia. La direzione condivisa di Dario De Luca, Saverio la Ruina e Settimio Pisano funziona e macina come fosse il primo giorno, non teme il tempo che fagocita e trita. Al Primavera, il festival che apre la stagione dei festival, la qualità sta di casa.

Partono, e finiscono, bene i Frigo con la loro novità: Tropicana, per poi, nel mezzo, afflosciarsi e affievolirsi. Il titolo rimanda alla canzoncina tormentone, non così stupida, degli anni 80. Gli anni del vuoto, della leggerezza, del disinteresse dopo la pesantezza dei 70. L’avvio è assolutamente beckettiano con questo sole (svelano la finzione teatrale dichiarando che è un faro) freddo e quest’idea della fine, della morte che attanaglia ma anche libera e deresponsabilizza. L’analisi logica e grammaticale del testo della ballata sanremese del Gruppo Italiano, targato 83, chiarisce (complice la “copertura” del jingle di base, allegro e spensierato da vacanze e isola) una profondità che accenna alla catastrofe imminente, alla disfatta in essere, alla dissoluzione on air.

Come dire: noi cantiamo allegramente con il nostro cocktail in mano, sorridendo pure, mentre la fine del mondo è già in atto, giorno dopo giorno, attentato dopo attentato, Parigi dopo Bruxelles, Londra dopo Kabul. Però, il discorso dei Frigo non spinge, non osa (manca una regia), non approfondisce, lasciandoci insoddisfatti, scivolando in litigi spiccioli da boy band, in un karma complessivo blando. Come se fosse una prova aperta, non riescono mai a graffiare, lento, sfilacciato, non trova la quadratura del cerchio. Interessante, ma non in linea con la pièce e la locandina: una bottiglia d’aranciata con un panno a formare una molotov. Purtroppo qui disinnescata.

Ancora musica, potente, sgargiante, fresca e combattiva, con i fratelli Dalla Via. Il loro gusto per la parola ci porta dentro il “bergonzonismo” ma con punte che deviano verso la cattiveria dei fratelli Coen o in direzione dell’arboriana “Indietro tutta”, in area Frassica o Catalano dove, ribaltando la banalità, si scoprivano nuove finestre per poter comprendere il reale, usare un altro metro di misura per soppesare la realtà. Marta Dalla Via è la front woman fumettistica di questo ensemble composto da un dj set e da due virtuosi dell’hip hop che rappano e rimano (scelta coraggiosa), in Personale Politico Pentothal: omaggio a Andrea Pazienza, ma anche a quel P.P.P. che porta verso Ostia, a Pier Paolo Pasolini. Le parole onomatopeiche scivolano, si scontrano con quelle arcaiche, fanno faville con l’aggiunta delle sgrammaticate, abbondano neologismi, termini obsoleti, latinismi traslati, inglesismi erronei fino a creare una pasta dislessica per un’orazione che prende pancia e orecchie, lotta futurista e intelligente con l’oggi, a scardinare il senso delle parole. La frase: “Ho un rimpianto di riscaldamento”.

Sempre grandi intuizioni ci regalano gli Oyes, giovane gruppo milanese che dopo Vania si ripete sulla stessa onda di pensiero da un classico russo, con questo personalissimo “Io non sono un gabbiano”. Un conflitto suddiviso in molte facce per delineare e affrescare una tristezza esistenziale e un’infelicità (farà da contraltare parodistico Felicità di Al Bano e Romina) grigia in una serie di confessioni e j’accuse, recriminazioni che non danno sollievo ma incancreniscono. Kostjia cerca amore e approvazione per colmare il suo senso di inadeguatezza, così come Nina non trova pace nelle braccia dello scrittore Trigorin. Scivolano mestamente confondendosi con il fondale. Melò è freddo al tempo stesso, sarcastico (il presentatore logorroico) e aulico, quotidiano e desueto, crudo in questo galleggiare, anaffettivo per una guerriglia di sentimenti da giungla. Come un dente devitalizzato. Su tutti Fabio Zulli, morto senza saperlo, d’impatto, Umberto Terruso, presenza che si sente sempre, Dario Merlini, tra Gioele Dix e Zach Galifianakis, quello di Parto col folle, esaltante. Il regista Stefano Cordella ha le idee e non ha timore di mostrarle.

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