A poche ore dall’annuncio di Donald Trump sull’uscita degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima, Unione europea e Cina riaffermano la loro determinazione a difendere il trattato. Il blocco dei 28 e il gigante asiatico hanno già pronto un comunicato da rilasciare quest’oggi al termine del summit Ue-Cina di Bruxelles, cominciato giovedì. Frutto di un anno di lavoro, la dichiarazione congiunta tra le parti – circolata ieri in forma ufficiosa sui media internazionali – offrirà svariati dettagli su come i due Paesi intendono mantenere le promesse fatte quando hanno accettato di limitare il riscaldamento globale al di sotto di 2°C  rispetto ai livelli preindustriali.

La Cina aveva ratificato l’accordo sul clima lo scorso anno, alla vigilia del summit del G20 di Hangzhou, assieme agli Stati Uniti, in quello che al tempo venne interpretato come un disgelo tra la leadership di Xi Jinping e l’amministrazione Obama, ai ferri corti su più fronti, dalle politiche monetarie cinesi (troppo disinvolte) all’assertività muscolare di Pechino nelle acque contese con i vicini rivieraschi

Frutto di oltre un anno di lavoro dietro le quinte, la dichiarazione congiunta – la prima del genere tra Cina e Ue – riafferma l’impegno a diminuire l’utilizzo di combustibili fossili attraverso lo sviluppo di una tecnologia più verde. Di più. Le due parti si sono  impegnate a raccogliere 100 miliardi di dollari l’anno, entro il 2020, per aiutare i Paesi più poveri a ridurre le proprie emissioni. Per l’anno in corso il blocco dei 28 ha in serbo 10 milioni di dollari da destinare al programma cinese, che prevede alcuni traguardi ambiziosi: raggiungere il picco delle emissioni inquinanti entro il 2030 prima di cominciare a scendere gradualmente (con la complicità del rallentamento dell’economia i tempi potrebbero essere addirittura accorciati) e arrivare a spendere 363 miliardi di dollari nello sviluppo di energia da fonti rinnovabili entro il 2020; data entro cui Pechino spera di estendere l’utilizzo del gas naturale al 10%, ridimensionando di conseguenza la propria dipendenza dai carburanti fossili.

La collaborazione Cina-Ue si svilupperà attraverso una serie di punti, tra cui svetta l’avvio di un “dialogo tecnico regolare anche sulle soluzioni di mitigazione e adattamento, sulla costruzione di capacità e sulla legislazione climatica“. Negli altri step è indicata la nascita di un mercato Ets (sullo scambio di quote di emissioni) a livello nazionale in Cina, l’istituzione di un dialogo sugli standard per i trasporti a basse emissioni, la cooperazione nello sviluppo di città ‘low-carbon’ e negli investimenti destinati a progetti “verdi”. Vengono inoltre gettate le basi per una diplomazia del clima, come si intuisce dalla determinazione a “esplorare le possibilità di cooperazioni triangolari” per la promozione dell’energia sostenibile, dell’efficienza energetica e della riduzione delle emissioni nei paesi in via di sviluppo, Africa in primis.

“L’Ue e la Cina considerano i cambiamenti climatici e la transizione verso un’energia pulita come un imperativo più importante che mai”, scandisce il comunicato a firma del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e del premier cinese Li Keqiang, giunto al termine della sua nona trasferta europea dall’assunzione dell’incarico nel 2012. Giovedì pomeriggio, prima di lasciare Berlino –  tappa d’inizio del viaggio di Stato – alla volta di Bruxelles, Li, affiancato dalla cancelliera Angela Merkel, ha dichiarato in conferenza stampa che la Cina implementerà “fermamente” l’accordo di Parigi, ma che “si tratta di un corso da portare avanti in cooperazione con gli altri”.

Un concetto ribadito nel documento Cina-Ue dal contenuto spiccatamente politico. Facendo esplicitamente riferimento al multilateralismo come ingrediente necessario a trovare soluzioni eque ed efficaci per i problemi del nostro tempo, Pechino e Bruxelles assestano un affondo contro l’unilateralismo statunitense sotto l’egida di Donald Trump. In Cina nei giorni scorsi si è insistito molto sulla spaccatura tra Europa e Stati Uniti emersa al vertice G7 di Taormina. Alla mancata elaborazione di un comunicato congiunto sul commercio e proprio sul clima si sono aggiunti i riferimenti della Merkel a un “G6+1”, chiara allusione all’isolamento di Trump.

Accantonate le divergenze sul massiccio export di acciaio cinese nel Vecchio Continente (un punto a cui le due parti dedicheranno uno statement specifico), tutto sembra spingere verso la nascita di un nuovo fronte Europa-Cina, che insieme rappresentano circa un terzo delle emissioni carboniche globali. Sia Pechino sia l’Europa condividono la visione di un futuro prospero ma sostenibile, sostenuto da anni di collaborazione sui cosiddetti crediti carbonio, sulla progettazione di città a basse emissioni e altri progetti.

Per la Cina, si sa, è tanto una questione di sopravvivenza quanto di soft power: nel 2007 la Repubblica popolare ha superato gli Stati Uniti diventando il principale emettitore di gas serra. Un primato che se sul versante domestico riempie di smog la quotidianità di oltre 1,3 miliardi di persone, sullo scacchiere internazionale costringe Pechino ad assumere il ruolo di superpotenza responsabile. Per molto tempo la Cina ha insistentemente rimarcato il suo status di paese “in via di sviluppo”, dribblando i doveri che spettano a una seconda economia mondiale. Oggi, con il disimpegno degli Stati Uniti, il gigante asiatico sembra pronto ad assumere la leadership globale. Sarà sufficiente?

C’è chi sostiene che, nonostante la buona condotta di Cina e India (terzo principale emettitore), il ritiro statunitense si tradurrà ogni anno nel rilascio di aggiuntivi tre miliardi di tonnellate di biossido di carbonio, accelerando lo scioglimento dei ghiacci, innalzando il livello del mare e incidendo ancora più negativamente sul clima.

di China Files per il Fatto

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