Sostenere che “l’austerità fa crescere“, di questi tempi, è un metodo rapido e sicuro per attirarsi insulti e accuse di connivenza con il gruppo Bilderberg. Ma come la mettiamo se austerità significa una seria spending review che riduce la spesa improduttiva e produce risparmi con cui tagliare le tasse? Il rigore sui conti si traduce in “una risorsa preziosa per i cittadini”, perché va a beneficio delle classi meno abbienti e ha un impatto positivo su investimenti, creazione di posti di lavorosviluppo. E’ la tesi sviluppata dall’economista Veronica De Romanis nel saggio L’austerità fa crescere (Marsilio), in uscita l’1 giugno. La provocazione del titolo si rinnova di capitolo in capitolo. Da quello che dimostra come “Contro l’austerità si vincono le elezioni. Ma non si governa” al successivo, che spiega perché invece “Con l’austerità si vincono le elezioni. E si governa”. La conclusione è dedicata all’Italia, i cui conti De Romanis conosce benissimo visto che per oltre 12 anni ha fatto parte del consiglio degli esperti del ministero dell’Economia. E racconta che nella Penisola “l’austerità non c’è (così come la crescita)”.

Non tutti i programmi di austerità, ha sottolineato il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi in un’intervista del febbraio 2012, hanno lo stesso effetto sulla crescita. Molto dipende dal modo in cui vengono realizzati. La prova? “I Paesi che negli ultimi cinque anni hanno messo in atto politiche di austerità “buona” e hanno tagliato le spese improduttive, nel biennio 2015-2016 crescono”, evidenzia De Romanis. “L’Inghilterra supera il 2%, la Spagna il 3%, l’Irlanda il 15%. L’Italia, che ha invece incrementato la spesa, è ferma allo 0,8%”. Prendiamo la Gran Bretagna: l’ex premier David Cameron (in carica fino a luglio 2016), ha mandato a casa in cinque anni 500mila dipendenti statali, riducendo di conseguenza la spesa per il settore pubblico in rapporto al pil dal 48% del 2010 al 42,9% del 2015. E ha usato una parte delle minori uscite per ridurre la pressione fiscale: ad esempio la tassa sul reddito d’impresa è scesa dal 28 al 20%. Così dal 2013 l’economia inglese ha ricominciato a crescere a ritmi ben superiori alla media europea e questo ha creato le condizioni per la creazione di circa 2 milioni di nuovi posti di lavoro. Al netto del “gigantesco errore di valutazione” che l’ha portato a indire il referendum sulla Brexit da cui è uscito rovinosamente sconfitto, “gli obiettivi economici previsti sono stati raggiunti”.

Perché allora l’austerità, per usare un eufemismo non gode di buona stampa, e lo “stop all’austerity” è diventato “uno slogan che fa guadagnare consensi”? Tutto inizia in Grecia, sostiene De Romanis. Ma con un equivoco di fondo. Infatti secondo la docente (insegna Politica economica europea nella sede fiorentina della Stanford University e alla Luiss) il rigore associato ai pacchetti di aiuti concessi al Paese dai partner europei era del tutto giustificato. E a mandare in recessione la Grecia non sono stati il rigore sui conti e le riforme, bensì “scelte di politica economica effettuate a livello nazionale che non hanno trasformato il modello di sviluppo prevalente negli anni prima della crisi, il quale ha assicurato elevati tassi di crescita e un benessere diffuso, ma che non poteva durare a lungo”. I sacrifici dell’aggiustamento avrebbero potuto insomma essere ripartiti “in maniera più equilibrata”, invece che penalizzare soprattutto la classe media. “I possessori delle grandi fortune, come gli armatori, non sono stati praticamente toccati” e ancora oggi non pagano le tasse sui profitti all’estero. In generale, i progressi dal punto di vista dell’equità fiscale sono stati “insufficienti” e la lotta all’evasione resta un problema irrisolto. Mentre in diversi casi “invece dei corruttori sono stati perseguiti coloro che la corruzione l’hanno combattuta”, come l’ex presidente dell’Istat greco Andreas Georgiou. Fece venire alla luce il crac denunciando che il deficit di bilancio era oltre il 15% del pil contro il 3% dichiarato. E’ tuttora sotto accusa per aver agito contro l’interesse nazionale, per abuso d’ufficio e falsificazione di dati: rischia l’ergastolo.

Insomma, la Grecia ha tradotto il rigore in austerità “cattiva”, che è “politicamente meno impegnativa” visto che “è sufficiente un tratto di penna per alzare le tasse, mentre diminuire le spese significa esporsi a lunghe e sfibranti negoziazioni con centri di interesse organizzati e influenti, andando incontro a un’inevitabile perdita di consenso – almeno nell’immediato”. Ma è anche un’ottima strategia per dare voce al populismo, alimentato dalla crisi occupazionale e dall’impoverimento dei ceti medi che sono in effetti frutto dell’austerità cattiva mentre potrebbero essere contrastati con una seria lotta allo spreco di risorse pubbliche e a favore della trasparenza. Ed è proprio questa, insieme al no alla globalizzazione, la battaglia che le “forze antisistema” si sono intestate, perché “i partiti tradizionali non hanno saputo fornire risposte né rassicurazioni” ma anzi “sono caduti nella trappola di inseguirle sul loro stesso terreno”. Invocando “meno austerità” e continuando ad aumentare la spesa.

E così si arriva all’Italia. Le cui performance economiche debolissime, scrive De Romanis, dipendono dall’avvicendamento tra “austerità cattiva” – quella del governo di Mario Monti, che ha optato per “poche riforme e molto rigore”, leggi tasse – e eccesso di spese in disavanzo. Quelle di Matteo Renzi, che al momento dell’insediamento nel febbraio 2014 ha promesso di continuare sulla strada del risanamento dei conti ma poi ha fatto il contrario. “Nel triennio 2014-2016, il debito non solo non si è ridotto, ma è aumentato passando dal 131,8% al 132,6%” del pil e “il disavanzo è diminuito (dal 3% del 2014 al 2,4% nel 2016), ma solo per effetto dell’azione della Banca centrale europea”. Durante i tre anni in cui è stato alla guida del paese, “la politica fiscale è stata espansiva” e il suo governo “è stato il primo a beneficiare della flessibilità di bilancio”, usata però non “per rafforzare il potenziale di crescita del paese, come previsto dalle linee guida, ma per finanziare spesa corrente, però degli anni precedenti”. Cioè per “neutralizzare le cosiddette clausole di salvaguardia, cioè una sorta di pagherò fiscali che consentono di dare il via libera a nuove spese nel bilancio dello Stato”, come il “fallimentare” bonus di 80 euro, “senza doverne specificare nell’immediato le coperture”. Un metodo che “non risolve il problema, lo sposta in avanti”, alimentando “un circolo vizioso, e poco trasparente, tra spesa di ieri finanziata con disavanzo di oggi da rimborsare con tasse di domani“.

Nel frattempo la revisione della spesa è rimasta sulla carta: “Dal 2011, in soli cinque anni, si sono alternati ben quattro commissari, e la spesa non è mai calata, anzi, ha continuato a registrare un andamento crescente”. Nonostante Renzi “abbia dichiarato di aver tagliato con la legge di Stabilità 2016 venticinque miliardi di euro“, in realtà qui soldi “sono stati sì realizzati, ma immediatamente riutilizzati per finanziare incrementi di altra spesa” e la riduzione netta “è stata pari solamente a 360 milioni di euro”. E le grandi riforme annunciate come rivoluzionarie, come quella della pubblica amministrazione, hanno avuto esito “deludente”, perché lo slogan della lotta ai furbetti non basta: “Timbrare il cartellino è una condizione necessaria ma non sufficiente per assicurare il miglior servizio ai cittadini“. Ma a conti fatti, “la battaglia che avrebbe dovuto essere a favore e dalla parte di chi contribuisce (…) a rendere la pubblica amministrazione più efficiente, semplice e moderna si è ridotta a una mera – e modesta, per la verità – lotta contro un numero non quantificabile di furbetti”. Risultato? “Nella media del biennio 2015-2016, l’economia è cresciuta dello 0,7%, quattro volte meno della media europea”. E “nel 2017, che ha visto il governo di Roma ottenere altri sette miliardi di euro di flessibilità, l’Italia dovrebbe attestarsi, con una valutazione del Pil stimata all’1,1%, in ultima posizione, persino dietro alla Grecia“.

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