La cosiddetta norma Airbnb ha il solo obiettivo di contrastare l’evasione fiscale. Mentre la diffusione del fenomeno rende necessaria una regolamentazione più ampia. Basata su linee guida nazionali e requisiti più stringenti stabiliti dagli enti locali.

di Sergio Beraldo e Giovanni Esposito (Fonte: Lavoce.info)

Nuove norme per l’affitto breve

La cosiddetta norma Airbnb – che entra in vigore da giugno – definisce un nuovo regime fiscale per le locazioni brevi. Oltre alla ritenuta del 21 %, operata come cedolare secca sui contratti non superiori a 30 giorni, la norma prevede che i gestori di portali d’intermediazione online – come appunto Airbnb, che agevola l’incontro tra proprietari disponili a locare un immobile o parte di esso, e turisti desiderosi di trovare una sistemazione – trasmettano i dati degli accordi stipulati per loro tramite e, se incassano i canoni corrispondenti, debbano assolvere la ritenuta fiscale in qualità di sostituti d’imposta (articolo 4, Dl 24 aprile 2017, n. 50.).

Sebbene l’obiettivo sia solo quello di contrastare l’evasione fiscale, le recenti disposizioni possono indurre a credere che l’introduzione di questi obblighi di trasparenza costituisca una soddisfacente regolamentazione del settore. Peraltro, il gettito addizionale che si conta di reperire non sarà certo esorbitante: 139,3 milioni, e solo se emergerà tutta la base imponibile che si presume occultata.

È opportuno che i redditi da locazione breve soggiacciano a imposizione di favore? Dato che si punta a far emergere base imponibile, costituendo un obbligo per gli intermediari, non sembrerebbe trovare giustificazione. Tuttavia, molti locatori a breve preciserebbero che non hanno la possibilità di dedurre i costi di esercizio, come invece fanno gli altri imprenditori del settore. Il punto rimanda alla percezione che coloro che gestiscono un’attività ricettiva non convenzionale hanno di sé e solleva la questione dell’inquadramento di questo tipo di attività e dei conseguenti doveri relativi.

Per esempio, il comune di Firenze – ma sforzi analoghi sono in corso altrove – ha stipulato un accordo con Airbnb per ottenere il pagamento della tassa di soggiorno anche da coloro che usufruiscono di strutture ricettive non convenzionali. La regione Toscana ha, però, inizialmente contestato la legittimità dell’accordo, visto che camere o appartamenti non sarebbero strutture ricettive, salvo poi cambiare idea.

L’esperienza tedesca

L’intermediazione immobiliare tramite portali online, accanto agli indubbi benefici, può produrre conseguenze non desiderate, come l’incremento degli affitti a lungo termine. In Germania, dove della questione si discute da tempo, da maggio 2016 non è possibile concedere in locazione breve un immobile senza previa autorizzazione comunale; la multa per chi non si adegua è di 100mila euro. L’obiettivo è quello di evitare strozzature nella disponibilità di alloggi. Uno studio commissionato da Airbnb sulla città di Berlino ha però evidenziato che la carenza di immobili da locare sarebbe da attribuire all’incremento della popolazione stabile della città cui non ha fatto seguito un adeguamento delle abitazioni a disposizione.

Le restrizioni decise in Germania hanno funzionato? Nel primo mese di attuazione della normativa, l’attività d’intermediazione di Airbnb è crollata del 40 % (qui e qui). I dati disponibili sembrano tuttavia suggerire che il calo sia stato temporaneo e che lentamente l’offerta sia in ripresa. Questo sia perché le multe per i trasgressori sono state applicate di malavoglia, sia perché la normativa è stata variamente interpretata e ha poi funzionato l’escamotage di locare solo parte degli immobili in modo da sfuggire alle restrizioni.

Una proposta per l’Italia

Per ciò che riguarda l’Italia, una regolamentazione è necessaria, data l’ampiezza del fenomeno: nel 2015 le strutture ospitanti (83.300) hanno accolto 3,6 milioni di ospiti; il guadagno medio per struttura è stato di 2.300 euro, con un impatto economico complessivo di 3,4 miliardi. Il pericolo sempre in agguato è, però, una regolamentazione asfissiante, che finirebbe per deprimere i fermenti positivi.

La nostra proposta è quella di linee guida nazionali molto blande, che stabiliscano solo alcune regole di buon senso (ad esempio: obbligo di segnalazione di inizio attività), con possibilità per gli enti locali di differenziare i requisiti (ed eventualmente gli oneri, anche fiscali), a seconda del contesto (la figura 1 mostra la distribuzione del fenomeno), tenendo conto di quattro condizioni: 1. la capacità di carico del sistema turistico;

2. le condizioni di sviluppo locale;

3. le pressioni eventuali sui canoni di locazione a lungo termine;

4. il volume di affari complessivo di chi esercita questo tipo di attività.

Discriminando ad esempio la situazione di chi attua sporadicamente l’home sharing, dalla condizione di chi connota la propria attività di locazione con le tipiche caratteristiche dell’imprenditorialità.

Figura 1 – Appartamenti che hanno ricevuto prenotazioni nel 2015 (Fonte: Airbnb – Sociometrica)

Articolo Precedente

Sole 24 Ore, Boccia (Confindustria): “Azienda gestita male? Ce ne eravamo accorti. Il direttore Napoletano? Un grande professionista”

next
Articolo Successivo

Il dilemma del voto anticipato: che fine fa la legge di bilancio?

next