La giornata di Fabio Curto, allevatore veneto della provincia di Treviso, inizia con uno sguardo ai dati della sua mandria sullo schermo del pc: calori rilevati, tempi di ruminazione, allarmi per eventuali mastiti in arrivo, qualità del latte munto. Alle 7.30 del mattino è già tutto sotto controllo. Le vacche, 130 quelle da latte, sono già state munte: ci ha pensato il robot.

La robotizzazione che tanto sta facendo discutere per le temute ricadute sulla manodopera, non riguarda solo le fabbriche. In stalla, ormai da qualche anno, hanno fatto la loro comparsa mungitrici, allattatrici, macchine per il razionamento del cibo e per la pulizia dei pavimenti. Così, nell’azienda agricola Ponte Vecchio, a Vidor (Treviso), 300 capi di bestiame in totale, all’uomo resta ben poco da fare. Addio al mestiere del mungitore e a diverse altre figure? “Prima la stalla era gestita da tre unità, ora ne bastano una e mezza”.

Il professor Aldo Calcante, ricercatore in Scienze Agrarie all’UniMi, che si sta occupando del fenomeno, spiega: “Quello che sto notando è un cambio di mansioni, non una riduzione di manodopera in azienda. Anzi, direi che si aprono finestre importanti per ragazzi preparati. Va gestita una macchina estremamente sofisticata e vanno interpretati i dati”. E a Vidor confermano: “Abbiamo dovuto dotarci di diversi collaboratori specializzati per controllare i robot. E la manodopera che non serve più nella stalla non è stata licenziata, ma è passata al caseificio visto l’aumento della produzione”. Proprio così, i robot hanno fatto crescere l’azienda. “Da quando siamo passati alla gestione robotizzata – racconta Curto – ogni mucca produce 3 litri di latte in più al giorno”. L’investimento, partito due anni fa, è stato di 500mila euro. L’ammortamento è previsto in cinque anni, ma il volume dell’azienda è già cresciuto del 25%. E anche se con la quotazione del latte a 0.37 euro al litro (dato CLAL del 22 maggio) i margini sono strettissimi, Curto conta di recuperare l’investimento prima del previsto.

La sua stalla è una delle pochissime in Italia (appena 5) ad avvalersi di robot in comunicazione fra loro, interconnessi attraverso un software: due mungitrici, un’allattatrice di vitelli e un robot per il razionamento del foraggio che assomiglia a un enorme frigorifero e si muove autonomamente tra le mucche. Che lo riconoscono e lo aspettano. Distribuisce il cibo e recupera ciò che è avanzato dalla razione precedente. Intanto, ai box di mungitura c’è sempre la coda. Sì, perché sono le mucche stesse a decidere se è ora di farsi mungere. E il robot, dopo un’analisi dei dati relativi al capo in questione, decreta se è il momento di prelevare altro latte o di lasciare che l’animale si ripresenti più tardi. Poco distante, in una sezione separata della stalla, ci sono i vitellini: anche loro hanno a disposizione un robot che prepara il latte e lo distribuisce alla giusta temperatura, con la corretta miscela. “Sembra un paradosso – dice soddisfatto Curto – ma l’impiego di mezzi artificiali rende i ritmi del bestiame molto più naturali, garantisce elevati standard in termini di igiene e salute, oltre al risparmio notevole sulla gestione”. In Italia le stalle con vacche da latte sono circa 31mila (dato Anagrafe Bovini 7/2014). Ad oggi, quelle con almeno un robot sono circa 400. Il dato non ha valenza statistica, ma è quanto riportano i principali produttori di automazione attivi sul mercato italiano (Lely, Tdm, Gea – Bellucci e DeLaval). Il fenomeno è quindi ancora contenuto, “ma – assicurano le azienda – in netta espansione”. Il fatturato Lely, leader di mercato in Italia, è in continua crescita negli ultimi tre anni. Fra il 2015 e il 2016 è più che raddoppiato e per il 2017 si stima che crescerà di un altro 15%

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