Nella sua visita a Genova, con la solita schiettezza, Papa Francesco ha detto che un imprenditore che guida la sua azienda cercando, sempre soltanto, di comprimere i costi non è un vero imprenditore. Qualcuno vuole dargli torto? Anche perché, tendenzialmente, nel cercare una soluzione all’impasse ormai ventennale del nostro Paese, i costi più semplici da comprimersi sono sempre quelli del lavoro. Da qualche tempo, vista la – a mio avviso – straordinaria cecità del mondo dell’economia nel cercare e proporre soluzioni che non appartengano alle trite ricette ormai fruste e inutili, mi ero ripromesso di starmene a cuccia, zitto e buono. Ma con questa verità (avanti, riconosciamolo, un vero “dogma”) “francescana”, di star zitto proprio non mi riesce. Si tratta, quanto meno in senso statistico, di una verità granitica, che non dipende soltanto dalla qualità dei nostri imprenditori. Anche se, ma questa è sempre solo una mia personale opinione, non è certo l’ultima delle cause di fondo.

1. Una prima causa: quella “etica“. La struttura della società italiana, come tutte le società umane di questo Pianeta, è paragonabile a un tavolo: che per stare in piedi ha  bisogno quanto meno di tre gambe, stabili e decise: se una manca o è zopparella, allora il tavolo traballa.L’imprenditore, in questa società, non ha soltanto un ruolo economico. Al contrario, ne ha uno, ancora più importante: quello sociale. Se la parte maestranza ha il compito sociale di fornire il prodotto o il servizio, la parte imprenditore ha il ruolo sociale di fornire lo sbocco di mercato e la riscossione delle liquidazioni delle fatture. E se la parte maestranza ha il compito di fornire il miglior prodotto e il migliore servizio, la parte imprenditore ha il compito di trovare il mix-mercato più remunerativo e solvibile, volto a generare il miglior successo possibile nel breve e medio termine. E non c’è alcun dubbio che questa nostra realtà imprenditoriale non sta fornendo, da anni, adeguata prestazione al riguardo. E nessun altro in una comunità economica può avere questo incarico.

2. Una seconda causa: quella scolastica . Nel mondo imprenditoriale italiano si trovano tutte le sfaccettature: è strutturalmente costituito da una quantità incredibile di imprese, di tutti i tipi, alle quali corrisponde una quantità incredibile di imprenditori: polverizzazione pura. Alla quale corrisponde una cultura economica che il nostro sistema-Paese fornisce attraverso la sua organizzazione scolastica pervasa di una qualità non solo molto bassa per la cultura (che sarebbe statisticamente necessaria), ma anche limitante nei confronti della crescente internazionalizzazione dei business che caratterizzano la nostra epoca.

La matrice prevalente della cultura economica fornita ai nostri imprenditori è di impronta “amministrativa“, non manageriale. Banalizzando (abbiamo, ovviamente, le dovute eccezioni), il ragioniere (professionista assolutamente indispensabile) non può ‘condurre’ imprese con la necessaria cultura imprenditoriale: il suo sguardo è rivolto al passato, non al mondo odierno o futuro. E la stessa formazione aziendalistica, che da poco tempo soltanto alcune università tendono a diffondere, è ancora molto marcata da orientamenti amministrativi, più che di “business”.

3. Una terza causa: quella sociale. Come potete chiedere una cultura aziendalistica moderna, capace di guardare sia dentro che fuori dai nostri confini? Come potete chiedere una cultura aziendale che cerchi gli sbocchi di mercato più remunerativi nel breve e nel medio termine? Davvero non credete che questa pseudocultura aziendale, in qualche nodo non viva anche nelle aziende più grandi, più sviluppate, più managerializzate?

4. Una quarta causa: quella politica. È una causa molto concreta: fragorosamente insolvente nei confronti dei doveri di conduzione di un Paese: sono il primo a sostenerlo. Ma non è affatto la causa principale. Sparare sui politici è facile: sui nostri poi è esercizio da neonati: come sparare sulla Croce rossa: ma non è cosa né giusta né intelligente: perché non spetta loro il compito di additare il futuro economico del Paese. Questo spetta solo ed esclusivamente alle forze sociali che sono gli imprenditori e le maestranze (attraverso le organizzazioni sindacali): ai nostri politici (colpevolmente e fragorosamente insolventi) spetta un compito diverso: quello di progettare e attuare una “politica” che favorisca il raggiungimento degli obiettivi che le forze sociali indicano come sostanziali.

Papa Francesco ha ragione da vendere: un imprenditore che cerca la quadra attraverso il sacrificio del lavoro non è un imprenditore, ma soltanto un ragioniere (con tutto il rispetto per la categoria). Siamo un Paese lillipuziano rispetto al mercato-mondo, scegliere e individuare gli sbocchi più remunerativi e utili alla sopravvivenza onesta della nostra società non è, né può essere un problema irrisolvibile. Ma se ciò non accade, è fra gli imprenditori che vanno ricercate le cause più profonde.

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