di Roberto Iannuzzi*

Comincia oggi il primo viaggio all’estero del nuovo presidente americano. La prima tappa è il Medio Oriente: l’Arabia Saudita, poi Israele. Seguiranno il Vaticano, Bruxelles e il G7 di Taormina. Trump si lascia alle spalle una Washington avvelenata da uno scontro politico-istituzionale senza precedenti, culminato con la nomina di un procuratore speciale che indaghi sulle presunte collusioni fra la Russia e il presidente, dopo che quest’ultimo aveva destituito il direttore dell’Fbi James Comey.

Circa otto anni fa, l’allora neoeletto Barack Obama si apprestava anch’egli a partire alla volta del Medio Oriente lasciando in patria una situazione difficile. L’America doveva risollevarsi dalle macerie della devastante crisi del 2008. Sebbene in Europa si sia parlato spesso, con malcelata invidia, della presunta ripresa statunitense, otto anni dopo, Washington sembra ancora dibattersi nel pantano politico, economico e sociale ereditato da quella crisi. Il voto che aveva portato Obama alla Casa Bianca era stato un voto di speranza. Quello che ha portato alla vittoria di Trump è stato un voto di rabbia e delusione, di fronte alle promesse di riscossa che l’amministrazione Obama, e in generale la classe politica statunitense, non hanno saputo mantenere. Quella stessa classe politica oggi si scontra con Trump in una lotta intestina che potrebbe minare le fondamenta della democrazia americana.

In otto anni, anche il Medio Oriente è drammaticamente cambiato. Le speranze di democrazia sollevate dalle rivolte arabe hanno lasciato il passo a guerre sanguinose in Libia, Siria, Yemen, e all’ascesa del sedicente Stato Islamico. Nel frattempo, potenze regionali e internazionali hanno fatto a gara nell’intervenire in tali conflitti. Mentre Washington si avvita nella sua crisi interna, il Medio Oriente al quale Trump si appresta a far visita è un pezzo andato in frantumi dell’ordine mondiale a guida statunitense. Altri pezzi, come l’Europa, vacillano.

Allorché Obama nel giugno del 2009 si preparava a pronunciare dal Cairo il suo discorso di apertura al mondo arabo, si era ancora all’alba di questa crisi globale. Apparentemente, il primo affacciarsi di Trump nella regione potrebbe sembrare non troppo dissimile da quello di Obama. Anche quest’ultimo aveva fatto tappa a Riyadh e aveva messo il processo di pace israelo-palestinese ai primi posti della sua agenda mediorientale.

E proprio come Obama, Trump si troverà a decidere nei prossimi giorni la nuova strategia da adottare in Afghanistan, dove le truppe statunitensi sono tuttora impantanate. Inoltre, se Obama aveva lanciato dal Cairo un messaggio di riconciliazione alle masse arabe, Trump recandosi nei luoghi sacri delle tre religioni monoteistiche vorrebbe lanciare un messaggio di tolleranza contro l’estremismo. E così come gli sforzi diplomatici di Obama nella regione sono in gran parte falliti, con la parziale eccezione dell’accordo nucleare iraniano, quelli di Trump sembrano purtroppo destinati a un esito simile.

Ma gli approcci dei due presidenti sono diversi. Dopo essersi recato al Cairo, Obama aveva evitato Israele, ponendo le basi di una reciproca diffidenza con Tel Aviv che avrebbe contribuito a far fallire ancora una volta il negoziato israelo-palestinese. Trump invece si recherà nello Stato ebraico, per proporre tuttavia un’iniziativa di pace superficiale e dagli orizzonti nebulosi. In realtà, egli concatena le tappe di Riyadh e Gerusalemme per rinsaldare un asse israelo-sunnita in chiave anti-iraniana. Con Teheran, Obama aveva dialogato, provocando un raffreddamento nei rapporti di Washington con Israele e Arabia Saudita. Ora Trump torna a quelle alleanze tradizionali, facendo temere un riacutizzarsi delle tensioni regionali con l’Iran, dalla Siria allo Yemen.

Nei giorni scorsi, il consigliere per la sicurezza nazionale H.R. McMaster aveva dichiarato che il viaggio presidenziale ha un triplice scopo: riaffermare la leadership globale degli Usa, continuare a costruire importanti rapporti con i leader mondiali e trasmettere un messaggio di unità agli amici dell’America e ai fedeli di tre fra le più grandi religioni del mondo. Non ispira però grande fiducia la “coalizione contro l’estremismo” che un presidente impopolare fra i musulmani vuole lanciare alleandosi con un paese autoritario come l’Arabia Saudita, intollerante nei confronti di sciiti e non musulmani. La visione manichea di Trump applicata agl’intricati conflitti di una regione complessa come quella mediorientale rischia invece di esacerbarli ulteriormente. Difficilmente tale visione sarà in grado di riaffermare una leadership statunitense già fiaccata dagli stravolgimenti mondiali degli ultimi anni e dalla crisi interna in cui si dibatte l’America.

Esaminare in poche righe le molteplici ragioni di questo declino è impossibile. Per chi fosse interessato, si tratta tuttavia di temi che proverò ad approfondire, insieme a Giampiero Gramaglia, domenica 21 maggio al Cinema Farnese Persol, in Campo de’ Fiori a Roma (alle ore 11:00, ingresso libero e gratuito a partire dalle 10:30). L’incontro, intitolato “Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo”, concluderà il ciclo Mediterraneo al cinema.

Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (aprile 2017)

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