La questione del giorno al festival di Cannes è ormai quella della disputa tra Netflix e il Festival, o meglio fra Netflix e i sostenitori dell’ortodossia del Festival. Netflix è infatti presente con due film in concorso e quelli del Festival non hanno preso bene il fatto che la piattaforma non si sia impegnata a distribuire i film in sala, ma anzi abbia annunciato l’imminente programmazione sui suoi canali. In seno alla giuria, i punti di vista sono contrastanti: Almodóvar, presidente quest’anno, dice che sarebbe in difficoltà a premiare un film che poi non andrà in sala; Will Smith, giurato, replica che i suoi figli sono ormai abituati all’esperienza del cinema lontano dalla sala.

Per di più, stamattina, alla proiezione stampa del primo dei film di Netflix in concorso, Okja del coreano Bong Joon Ho, l’avvio è stato disastroso: un errore di mascherino tagliava tutte le teste e per dieci minuti la sala con 1.200 giornalisti ha fischiato inutilmente. La proiezione si è fermata e una volta ripresa, dopo altri dieci minuti, un applauso fragoroso ha salutato il logo Netflix in apertura del film. Conferma quasi plastica, sia pure casuale, del fatto che non saranno le regole del cinema tradizionale a fermare le nuove forme della medialità cinematografica. A ben vedere, però, il problema non è tanto quello di una disputa tra sostenitori della fruizione classica in sala e sostenitori dell’uso “liquido” del cinema, né quello dell’adattabilità dei formati. A giudicare da Okja, il problema è quello di contenuti sempre più adattati per necessità a un gusto internazionale che appiattisce la differenza.

Il film racconta la storia di una ricca industriale, Tilda Swinton che, fingendo di invertire la rotta della condotta priva di scrupoli del padre, cerca di lavarsi la coscienza a buon mercato, sostenendo, in nome della lotta alla fame nel mondo, la produzione di nuovi animali Ogm, specie di supermaiali il cui allevamento è testato in varie parti del mondo. Il migliore di questi animali – simili a ippopotami dall’animo umano – è portato dalle foreste della Corea a New York per essere avviato alla produzione industriale. Ma la sua allevatrice, una ragazzina dal cuore tenero, lo insegue per mezzo mondo per salvarlo dalla triste fine. Non è difficile prevedere che il film, carico di azione, di effetti spettacolari e di una musica straripante, troverà il suo largo pubblico e il suo successo in tutto il mondo.

Ma lo farà a costo di sacrificare sull’altare di sentimenti universalmente condivisibili (come il sostegno a un uso “umano” degli animali) la ricerca della differenza, di quella piccola ma grandissima capacità del cinema di creare eccezioni: non immagini eccezionali, ma eccezioni di immagini. In altri termini, la battaglia per il cinema di domani non si gioca sulla fruizione nelle sale, ma sulla capacità di produrre stupore in modo autentico.

Per fare un esempio, oggi stesso a Cannes è passato uno straordinario, piccolissimo gioiello di due grandi cacciatori di immagini come Agnès Varda e JR, cioè una novantenne e un poco più che trentenne. Visages, villages, questo il titolo del film, è una ricerca sul valore dei volti e delle immagini, fotografiche e cinematografiche, attraverso un viaggio nel profondo nord della Francia. L’opera è carica di intuizioni sulla fragilità delle immagini: in una bellissima sequenza la fotografia di un vecchio amico di Agnès, stampata in grandissimo formato, è affissa su un gigantesco blocco di pietra rotolato fin quasi in riva al mare: e l’indomani la marea della notte l’ha già mangiata. Ma punta anche sulla forza del modo in cui si sanno vedere le cose: Visages, villages racconta l’epopea di mondi piccoli eppure vivi, fieri della loro diversità e della loro resistenza di fronte all’uniformità del mondo. E lo fa scavando dentro quelle realtà in forma minimalista, quasi con pudore, con un’essenzialità che richiama la lezione del grande Cartier-Bresson. Vero cinema, vere immagini. Giusto delle immagini.

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