Il bunga bunga, ricordate? Per denigrare la stampa che ne rivelò l’esistenza fu definito voyeurismo giornalistico, fu bollato come l’età evolutiva del giornalista moralista e ipocrita, fu spiegato che non avesse nulla di penalmente rilevante e dunque valesse solo a suscitare intrigo morboso e curiosità sfacciata. Fu scelta come definizione la “gogna mediatica”, lama che trafigge l’incolpevole di turno.

Le serate del bunga bunga svelarono invece un tratto identitario di Silvio Berlusconi. Altro che giudizio morale! In gioco non c’erano i suoi gusti sessuali, le abitudini di casa e ogni altro aspetto privato del tutto privo di interesse pubblico. In gioco c’era la bandiera italiana che Berlusconi (nessun altro premier si è permesso di imitarlo per fortuna) volle issare sul portone di casa sua, trasformando le mura domestiche in una residenza ufficiale abitata e frequentata da decine e decine di persone, molte delle quali pubblici ufficiali. In gioco c’erano i ricatti – che in seguito avremmo visto quanto persuasivi – verso il presidente del Consiglio dei ministri da parte di persone senza molti scrupoli, in gioco ci fu la sua immagine e quella del Paese che rappresentava. E i ricatti – magari conosciuti anche da terzi – rendevano più forte o più debole Berlusconi? Più autorevole o meno?

Oggi, come ieri, la storia si ripete. Si derubrica a innocente e privata la conversazione di un figlio con un padre – anch’essa irrilevante ai fini penali – conducendola nell’orlo della sempiterna gogna. Dimenticando colpevolmente che quella conversazione, grazie al lavoro e alle capacità di Marco Lillo, rivela l’istantanea di un grumo di potere e di affari, l’opacità di un padre – genitore dell’ex premier – e il terrore di un figlio – in corsa per il bis – nel disvelarla.

Non si era detto che tirare in ballo il nome di Tiziano Renzi nella vicenda Consip era un modo, obliquo e giornalisticamente vergognoso, di gettare fango sul figlio, tirarlo dentro un guaio, coinvolgerlo in una inchiesta pur di fargli del male?

La telefonata, organizzata o meno, pianificata o no, è così utile e giornalisticamente preziosa perché riscatta la verità di quei giornali, anzitutto il Fatto Quotidiano, che avevano riferito del coinvolgimento di Tiziano Renzi. E’ proprio il figlio che teme le bugie del padre, il figlio che sospetta che neanche a lui la verità abbia voluta dirla e continui a tacerla (“non dire bugie”). E’ il figlio che chiede di non coinvolgere anche la mamma, è il figlio che lo accusa di stare dentro “il giro di merda” degli adoratori della madonnina di Medjugorje.

E’ dunque non solo il Fatto Quotidiano ma anche Matteo, il figlio, che sospetta del padre, ed è infine il figlio che ha paura che quell’iperattivismo (traffico di influenze?) sia nocivo per la propria carriera politica.

E’ Matteo Renzi che ristabilisce la verità elementare: Tiziano Renzi è finito nell’inchiesta Consip grazie al proprio talento. Di Tiziano il merito di infilarsi nei guai, frequentare le persone sbagliate, incontrare alla bettola o al bar chi non dovrebbe.

Aver pubblicato questa telefonata – ancorché penalmente irrilevante – è una medaglia al merito, è il contributo più rilevante che un giornalista può dare alla conoscenza dell’opinione pubblica. Ciascuno potrà giudicare e valutare. Ma ora si sa con certezza quel che fino a ieri era l’incerto, il plausibile, il probabile. Cos’altro deve fare un giornalista?

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