Argentina, Brasile, Stati Uniti, Cile, Indonesia, Corea, naturalmente Russia e tanti altri paesi del mondo. È il macabro giro del globo che si fa cercando su Twitter l’hashtag #curatorfindme, l’appello disperato di tanti adolescenti che vogliono “giocare” a Blue Whale, invenzione perversa che si concluderebbe con il suicidio del partecipante. In Italia il caso “Blue Whale” è esploso dopo un lungo e angosciante servizio di Matteo Viviani per Le Iene, con l’intervista ad alcuni genitori di ragazze russe suicidatesi quasi certamente dopo aver “giocato” e le dichiarazioni allarmate di un adolescente livornese che collegherebbero il recente suicidio di uno suo amico al gioco. Qualora fosse confermato il legame tra il suicidio e Blue Whale, si tratterebbe del primo caso in Italia.

C’è tanta preoccupazione attorno al polverone mediatico provocato dal servizio delle Iene in Italia e da tante altre inchieste giornalistiche in giro per il mondo, ma di sicuro, al momento, c’è che il ventenne russo Philipp Budeikin è stato arrestato qualche mese fa con l’accusa di essere l’ideatore del macabro gioco e di avere istigato al suicidio alcuni adolescenti. Le dichiarazioni di Budeikin (che ha ammesso l’istigazione al suicidio “solo” di 16 ragazze) ballano pericolosamente tra sadismo e patologia psichiatrica: “Ho eliminato la feccia, gli scarti biologici della società. Prima o poi mi ringrazierete”.

Parlare così tanto di Blue Whale come si sta facendo anche in Italia negli ultimi giorni è positivo, perché si sensibilizza l’opinione pubblica su una possibile (anche se ancora non del tutto confermata) minaccia incontrollabile e dagli effetti potenzialmente devastanti, ma secondo alcuni il rischio è che si faccia anche da cassa da risonanza, incuriosendo adolescenti che per indole personale o esperienze di vita potrebbero essere più vulnerabili a “avvicinabili” dai cosiddetti curatori (i burattinai del gioco). Le regole da seguire sono cinquanta, una per ogni giorno sino al suicidio finale: si va da atti di autolesionismo a maratone di film horror, innocui disegni di balene da condividere sui social e visite notturne sul tetto di un palazzo.
E a spulciare tra i tweet che contengono gli hastag legati a Blue Whale (#i_am_blue_whale, #imingame, #wakemeupat420, #f57 e il già citato #curatorfindme) oggi si possono trovare innanzitutto centinaia e centinaia di cinguettii contro il gioco, che invitano a segnalare i profili di presunti curatori, appelli pubblici rivolti agli adolescenti che chiedono di entrare nel macabro club di giocatori.

Questo è un indubbio merito della discussione globale che si è innescata attorno al fenomeno, così come gli avvisi di Twitter e Instagram quando si cerca uno degli hashtag incriminati. Il social delle foto, ad esempio, reagisce con un avviso che invita chi cerca immagini con quell’hashtag a chiedere aiuto cliccando un apposito pulsante: “Se stai vivendo una situazione difficile, saremmo lieti di poterti aiutare”. Non è chiaro se le tante richieste di entrare nel ‘gioco’ siano conseguenza della copertura mediatica globale che sta avendo il fenomeno o se davvero i numeri sono addirittura più preoccupanti di quanto si possa pensare. Su Instagram e Twitter c’è anche chi si lamenta delle critiche e dei continui appelli a smettere, chi annuncia fieramente di voler continuare, chi è ancora alla ricerca di un “curatore”.

Allarme o allarmismo, questo è il problema. Un argomento del genere va trattato con attenzione e massima cura, ma se davvero solo in Russia ci sono oltre 150 suicidi legati a Blue Whale e visto che in ogni angolo del mondo c’è qualcuno che chiede a gran voce di giocare fino a uccidersi, forse è il caso di affrontare la questione di petto e mettere in campo una strategia di ascolto e supporto che utilizzi la Rete per salvare dalla follia nata in Russia anche un solo adolescente. Secondo alcuni autorevoli gruppi che nel mondo si impegnano a smascherare bufale di vario genere, tutta la storia non sarebbe confermata. I suicidi in Russia ci sono stati, ma anche prima dell’esplosione del “gioco”. Il Blue Whale Challenge potrebbe essere stato quello che in inglese chiamano “trigger” (letteralmente “grilletto”) che ha innescato il fenomeno, ma di confermato non c’è nulla o quasi, anche se gli indizi fanno quantomeno pensare a una strana coincidenza. Secondo altri, poi, molti appelli per cercare un curatore sarebbero solo tentativi di attirare l’attenzione. Ma non è forse un campanello d’allarme anche questo?

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