L’anticipo pensionistico, il Jobs act e il bonus da 80 euro sono stati e sono interventi insufficienti per risalire la china e superare la crisi. Peggiora la distribuzione del reddito, sono instabili i proventi che arrivano dal lavoro e anche le politiche di consolidamento fiscale, mentre la produttività risponde con una dinamica ridotta, accompagnata dall’invecchiamento demografico, dalla frammentazione anche territoriale dei sistemi produttivi e dalla finanziarizzazione dell’economia. Che si è tradotta in processi di creazione di valore nuovi ma più insicuri, che poco hanno a che fare con le attività produttive. Questo il quadro che emerge dal Rapporto sullo Stato sociale 2017 curato dall’università La Sapienza e presentato a Roma nel corso di un evento al quale ha partecipato anche la presidente della Camera, Laura Boldrini. Nel dossier si analizza la natura della grande recessione iniziata nel 2007 e l’ipotesi che sia in atto una ‘stagnazione secolare’, ma anche il ruolo che può essere affidato all’intervento pubblico e al Welfare State per superare la crisi.

PENSIONI, JOBS ACT E BONUS DA 80 EURO: “MISURE POCO EFFICACI” L’Ape, l’anticipo pensionistico alla cosiddetta ‘fase due’, così come il bonus di 80 euro e il Jobs act, tutti interventi che avevano l’obiettivo di far recuperare competitività, vengono considerati nel rapporto “misure scarsamente efficaci per stimolare l’economia” e inadeguate a fronteggiare il problema strutturale del nostro sistema pensionistico. In pratica si trasformano i lavoratori di oggi, che stanno sperimentando salari bassi e discontinui, in una “estesa schiera di pensionati poveri”. Secondo il rapporto l’Ape “non altera la visione entro cui si è mossa la riforma Fornero e non ne risolve i problemi, se non in misura molto limitata”. L’unica novità interessante potrebbe arrivare solo dall’Ape social, che si avvale del contributo pubblico, mentre l’anticipo volontario ha dei costi. “Un pensionato che avesse maturato un assegno mensile di mille euro netti e volesse anticipare il pensionamento fino al massimo di tre anni e sette mesi – si ricorda – potrebbe vederlo ridotto fino a 700 euro”.

IL MERCATO DEL LAVORO – Secondo il rapporto l’Italia “ha risentito particolarmente delle modalità controproducenti della costruzione europea e della grande recessione”. I loro effetti si sono sovrapposti e mescolati con le cause di un declino che va avanti da un quarto di secolo. Il tutto mentre le differenze territoriali continuano ad aumentare. “Tra il 2008 e il 2014 – si legge nel rapporto – il valore aggiunto del settore manifatturiero è calato del 14% nelle regioni del Nord e del 33% in quelle del Sud; nelle prime i consumi delle famiglie sono diminuiti del 5,5% mentre nelle seconde del 13%”. Nel Meridione, inoltre, il calo degli investimenti ha raggiunto il picco del 38% e nel settore manifatturiero è arrivato al 59,3%. Dall’inizio della crisi sono stati persi 576mila posti di lavoro, aggravando una situazione occupazionale già molto critica. “Nel nostro Paese – rileva il rapporto – la strategia di cercare la competitività nella riduzione del costo del lavoro e nella flessibilità del suo impiego, è stata attuata con diverse misure, tra cui la riforma Fornero del 2012 e il cosiddetto Jobs Act del 2015”.

L’effetto principale dell’azzeramento totale dei contributi sociali prevista per un triennio dal Jobs Act “a totale vantaggio dei datori di lavoro” non è stato quello immaginato di rilanciare la crescita e l’occupazione a tempo indeterminato, “ma di modificare i tempi e le modalità provvisorie delle assunzioni che le imprese avrebbero in gran parte comunque fatto”. Prova ne è il forte calo di nuovi occupati a tempo indeterminato successivo alla riduzione dello sgravio contributivo. Un dato che fa anche capire come “tagli di pochi punti del cuneo fiscale (come i 4-5 che il governo attuale vorrebbe ridurre stabilmente) siano del tutto inadeguati a stimolare assunzioni nel contesto irrisolto dell’attuale grande depressione”. Le analisi della nuova occupazione creata (momentaneamente) dalle misure di riduzione del costo del lavoro introdotte dal Jobs Act mostrano, secondo il rapporto, che oltre ad essere “caratterizzata da bassi livelli di specializzazione” è anche diffusa in settori a scarsa intensità tecnologica ed è costituita prevalentemente da lavoratori di età superiore ai 55 anni. “Nell’insieme – spiega il rapporto – questi risultati accentuano anziché attenuare le carenze strutturali del nostro sistema economico-sociale”.

LA DIMENSIONE EUROPEA – Quest’anno nel rapporto è dedicata attenzione particolare alla dimensione europea. Secondo il rapporto l’inferiorità, tra l’altro persistente, delle performance economiche che si registrano in media nei Paesi dell’Unione rispetto alle grandi aree economiche sono da attribuire a diverse cause. Tra queste “le politiche di bilancio restrittive e particolarmente vincolanti per le economie nazionali già più deboli e la carenza di politiche industriali tese all’ammodernamento delle strutture produttive e a ridurre le disomogeneità geografiche esistenti”, ma anche “il contenimento delle risorse rese disponibili a fini sociali, specialmente per le regioni più bisognose”. La ricetta economica indicata dagli organismi comunitari e seguita nei singoli Paesi è stata la flessibilizzazione del mercato del lavoro, con la diffusione di contratti temporanei e a tempo parziale e la riduzione dei vincoli al licenziamento. Secondo il rapporto “si tratta di una strategia competitiva miope, opposta a quella fondata sull’innovazione e lo sviluppo qualitativo dei sistemi produttivi. Una dinamica che ha penalizzato maggiormente le economie già in ritardo, allargando ulteriormente le differenze territoriali”. Ma non solo. Dall’inizio della crisi, ci sono forti segnali d’indebolimento della globalizzazione. “Si riduce la propensione e anche la disponibilità al coordinamento economico, sociale e internazionale – spiega il dossier- e si prospetta un ritorno a politiche protezionistiche”. A cosa si va incontro? “A un approccio alla crisi di tipo regressivo: il rischio è che ai gravi problemi economici e sociali generati dai processi di globalizzazione privi di governance seguano quelli, dagli esiti imprevedibili e minacciosi, del rafforzamento delle frontiere, trasformate in muraglie ostili e del ritorno ai già sperimentati pericoli dei nazionalismi”. Una prospettiva di cui già ci sono i primi segnali.

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