Nella terra di Viktor Orbán, l’Ungheria, dei fili spinati di Petra Laszlo (operatrice video di una tv ungherese che prese a calci i profughi in fuga) si trova un monumento particolare.

A Budapest, lungo il Danubio, si incontrano 60 paia di scarpe, scolpite nel bronzo. Le dimensioni sono quelle naturali e la regola vale anche per quelle più piccole. Appartenevano, nella metafora dello scultore Pauer Gyula, a bambini. Le ho mostrate ai miei figli durante un piccolo viaggio in quella capitale. Quelle scarpe ricordano le vittime – alcune delle vittime – di uno dei tanti crimini compiuto tra il 44 e il 45 dalle Croci frecciate, milizia filonazista.

Gli ebrei che si salvavano da fame e torture nel ghetto venivano radunati lungo la sponda. Li legavano in gruppi di tre. Poi un colpo alla nuca raggiungeva il prigioniero al centro di quell’osceno insieme forzato. Gli altri due compagni di corde finivano in acqua, insieme al giustiziato. Ad attenderli, la morte per annegamento. Sulla riva rimanevano le scarpe, che le vittime erano costrette a togliersi prima del supplizio. Forse come ultimo affronto alla loro dignità o forse per diventare merce preziosa in guerra nelle mani dei carnefici.

Dicevo che era un monumento particolare. Particolare non solo per il suo significato. Particolare anche perché non si trovano nei dintorni indicazioni utili a rintracciarlo. O forse non sono stato io abbastanza attento. Mia figlia ha notato le scarpette di una bimba. Mi ha chiesto quanti avrebbe oggi quella sua coetanea di 70 anni fa.

“È una cosa tristissima”, ha detto e l’espressione del viso moltiplicava il significato della parola. Si chiedeva anche perché mostrarle, se chi le indossava non c’era più. Le ho risposto che erano lì per ricordare a chi viene dopo. Come io le mostravo e lei, lei le avrebbe mostrate in futuro ai suoi figli. “E se me ne dimentico?” ha domandato. Quelle scarpe saranno qui a ricordartelo. Sentivo che la voce mi si stava strozzando in gola e ho terminato la mia breve spiegazione. Il pensiero poi è tornato a quelle scarpe e all’Ungheria che ho conosciuto da lontano negli ultimi anni.

Oggi quelle scarpe di bronzo impedirebbero di ferirsi i piedi mentre si scavalca un filo spinato. Impedirebbero a qualche giornalista troppo zelante di far inciampare chi scappa con la figlia sotto braccio. Impedirebbero a chi sta in alto di fare passi affrettati. Da lassù, prima o poi potrebbero cadere.

Articolo Precedente

Biennale di Venezia, in mostra anche l’Amazzonia di Ernesto Neto

next
Articolo Successivo

Le mamme ribelli non hanno paura, il libro di Giada Sundas: “Ho scelto la sincerità: essere madre anche è una rottura di scatole”

next