Dall’assistenzialismo al business sociale che evita la trappola della dipendenza

“Ci sono due filoni di pensiero – spiega a Ilfattoquotidiano.it Chiara Piaggio, consulente privato nel settore della cooperazione allo sviluppo – Entrambi partono da un’evidenza: il sistema della cooperazione va cambiato”. La prima corrente, spiega la philantropy advisor, individua nella necessità di maggiori investimenti la causa del fallimento degli ultimi 60 anni. Quindi per aumentare l’efficienza sarebbe necessario investire di più. La seconda, in cui la stessa Piaggio si riconosce, “vuole cambiare l’approccio assistenzialista alle politiche di sviluppo”. Come? Investendo in progetti di business sociale sostenibile che, una volta avviati dalle organizzazioni non governative, possano essere gestiti dalla popolazione locale. “In questo modo – spiega – si creano risorse destinate a rimanere sul territorio e a favorire lo sviluppo della popolazione locale che viene così responsabilizzata e non ridotta a uno stato di totale dipendenza. Con la logica assistenzialista, invece, si avviano progetti lunghi pochi anni che, una volta conclusi, non lasciano niente alla popolazione”.

Questo nuovo approccio, nato nel mondo anglosassone, sta trovando applicazione in molti Paesi in via di sviluppo. Ne è un esempio Farmerline, applicazione per smartphone e tablet nata in Ghana nel 2013 che offre servizi ai contadini locali come informazioni per sviluppare nuove tecniche produttive, monitorare il meteo, rimanere informati su prezzi e richieste del mercato. Altro esempio è il progetto Lighting a Billion Lives, nato in India nel 2007. Il progetto a scopo umanitario si propone di offrire a prezzi molto contenuti l’acquisto di piccoli pannelli fotovoltaici e lampade a led per l’illuminazione, andando a sostituire le costose e inquinanti lampade al cherosene molto diffuse nel Paese. Così si riduce anche l’inquinamento dell’aria e si migliora la vita della popolazione.

A volte comunque bastano anche progetti più tradizionali: “In un villaggio del Senegal dove abbiamo installato una pompa sono tornati dei ragazzi che erano in Libia, maltrattati e angariati mentre cercavano di imbarcarsi”, racconta Stefano Lentati, responsabile per l’Africa dell’ong Fratelli dell’uomo che lavora da anni nel Paese. “Quando hanno saputo che nel loro villaggio c’era di nuovo l’acqua e si potevano fare attività agricole sono rientrati, dicendo: “In Libia ho fatto una vita d’inferno, meglio tornare”. Creare un lavoro dignitoso in loco toglie stimolo ad andare a cercar fortuna”. Evitando così un viaggio pieno di rischi e che in media dura circa due anni.

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