Un mese fa ci aveva pensato il risultato del referendum di Almaviva a lanciare l’ennesimo campanello d’allarme al sindacato confederale. La settimana scorsa il referendum Alitalia è stata un’ulteriore tegola sui sogni concertativi del sindacato: non ha portato fortuna il tentativo di trattativa tra tutti gli attori in campo governo-impresa e sindacati, dopo anni che la concertazione era stata messa in soffitta dal governo Renzi, per cui le forze sociali vanno solo, e non sempre, consultate.

La rappresentatività del sindacato è stata messa in discussione dal tribunale del lavoro di Roma, condannando la Cgil per i 1.666 licenziamenti alla Almaviva romana con una multa inflitta alla confederazione. Il giudice ricostruendo le fasi della vertenza, addebita la responsabilità del fallimento allo scarso impegno dei vertici sindacali che, per due volte, il 27 giugno e il 9 settembre, “non si sono neppure presentati agli incontri pur essendosi impegnati a raggiungere un accordo sulla gestione della qualità, della produttività e dell’analisi del contratto”.

Due referendum, due casi, due aziende con storie, mercato e proprietà diversissime. Una sul mercato dei call-center e l’altra di un settore particolare dei trasporti da molti definito (erroneamente) un servizio di trasporto pubblico irrinunciabile. Nel primo caso sono stati sconfitti i confederali e nel secondo i confederali e sindacati professionali, con una figuraccia del governo che aveva lanciato appelli pro accordo attraverso il presidente del Consiglio.

La vita relativamente breve di Almaviva ci racconta di relazioni sindacali industriali (tradizionali), la lunga storia di Alitalia, invece, di relazioni industriali consociative, poco “industriali” e di commistioni con la politica. Mentre logiche di mercato deregolamentato (la globalizzazione) hanno influito sulla vita di Almaviva, Alitalia ha fatto da vero e proprio tappo all’ingresso, anche in Italia di logiche di mercato (regolamentato dalla Ue). Ciò è stato possibile grazie alla tenuta “monopolista” e “consociativa” delle parti, anzitutto del governo (quindi della politica) con l’avallo dei manager del vettore e l’adesione entusiasta del sindacato che ha gestito ed assecondato politiche inique e corporative negli ultimi decenni.

Come non ricordare come esempio di consociativismo quando l’Alitalia pubblica, senza nessuno scambio contrattuale (solo una tregua degli scioperi), fece entrare tre sindacalisti, cooptati dal cda Alitalia il 16 maggio 1997: un pilota dell’Ampac e due dirigenti sindacali di Cgil e Cisl. I sindacati entrarono nel cda lo stesso giorno in cui veniva approvato il disastroso bilancio 1996, con 1.210 miliardi di lire di perdite (625 milioni di euro). Più che un azionariato dei dipendenti, un azionariato sindacale.

Poi nel 2007, c’è stata la “privatizzazione” sostenuta economicamente da garanzie dello Stato che ha assorbito tutti i debiti, con la tutela monopolista di alcune rotte come la Roma-Linate e l’adozione di ammortizzatori sociali mai visti nel panorama mondiale (per durata, sino a 7 anni, come l’assegno de-lux mensile fino a 20 mila euro mensili della Cassa integrazione per i naviganti). L’adesione dei sindacati è stata entusiasta visto che gestiscono assieme all’Inps e all’azienda un apposito fondo di solidarietà, un vero e proprio “scippo” ai danni dei consumatori, alimentato da una tassa d’imbarco di euro 6,5 per passeggero.

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