Leggo spesso di cervelli in fuga. Ricercatori che non hanno trovato una situazione economica e contrattuale normale e han deciso di andare a cercar fortuna all’estero. Non mi sento di dar loro torto. Tuttavia sembra che solo i ricercatori debbano essere oggetto di interesse e/o preoccupazione. L’italia si svuota del suo patrimonio scientifico e cosi diventerà povera.

Passi questa logica ma in Italia non vivono, studiano e lavorano solo ricercatori, startupper. Ci sono numerosi posti di lavoro anche in aree e settori industriali che, forse per evoluzione storica forse per tradizione, sono riconosciuti come “italiani”. Uno di questi è la ristorazione. Un italiano che va all’estero e non sa far nulla apre una pizzeria o un bar. Io stesso quando son finito a Londra ed ero in astinenza di pizza ho fatto un salto in un ristorante easy in Notting Hill che facevano una pizza a metro fantastica. Non tutti gli italiani sono cuochi, ma i cuochi possono essere ambasciatori della italianità. Se il detto “sei cosa mangi” è vero, noi italiani siamo una gran bella nazione, sulle scelte americane stile cibo spazzatura preferisco non commentare.

Ora, che i cuochi italiani (o aspiranti tali) vadano all’estero per fare esperienza o trovare una situazione migliore direi che ci sta. Mi domando: qualcuno di loro torna? Qualcuno di loro decide di sacrificare un po’ di più (dal sistema di tassazione iniquo alla burocrazia l’Italia non ha solo lati positivi, credo) per tornare in Italia e fare qualcosa di buono? Io ne ho scoperto uno (in attesa di scoprirne altri).

Classe ’77, partenopeo Andrea Aprea è lo chef Executive del ristorante Vun dell’Hotel Park Hyatt di Milano. È stato “fuori” per anni. Lavorando nei migliori ristoranti stellati. E poi, ha deciso di tornare. Perché? Gli mancava “lo spago” nostrano? Difficile, di solito un cuoco due spaghetti sa cucinarli (magari facendosi anche da solo la pasta fresca).

Come mi spiega “ho deciso riportare in Italia tutta la mia esperienza fatta all’estero e poter valorizzare il patrimonio etnogastronomico che la nostra nazione ha da offrire”. Una dichiarazione che lascia il tempo che trova, si può pensare. Verissimo. Ma il tema che ho discusso con lui è la qualità. In italia si mangia bene ovunque (beh, insomma) ma il problema è come valorizzare l’Italia. Tutti a parlare di turismo, di qualità del cibo. Farinetti, con il suo Eataly, ha venduto la qualità italiana nel mondo. Non un esperto di qualità (prima vendeva nella grande distribuzione) come Petrini di Slow food, ma ha saputo capitalizzare quella “dolce vita” di cui gli stranieri sono affamati. Esiste una offerta di qualità per un turismo di lusso? Leggevo ieri le uscite del signor Briatore, secondo lui no.

Nell’ambito del turismo, come dimostra il rapporto di Enit (Ente Nazionale del Turismo) l’interesse degli stranieri per l’Italia è aumentata anche nel 2016. Con un una cifra di poco inferiore ai 30 milioni di euro (29,868 dati Enit). Quindi la domanda per il made in italy e lo stile e la qualità non manca. Il problema semmai è ricavarsi una nicchia nel settore del turismo e – perché no, bando al politicamente corretto – al turismo di lusso. Perché se è vero che i tedeschi che invadono le spiagge di Riccione (ora sempre meno) van bene ma son taccagni, gli arabi (e non parlo dei terroristi, per favore evitiamo battute) i cinesi, gli indiani, e un po’ di americani con i soldi di certo non sono da buttare via.

Il sor Aprea ha pensato bene di tornare in Italia per creare una soluzione di Made in Italy di qualità. Una scelta di filiera corta, con fornitori italiani, con un attenzione alla proposizione dei piatti. Se un turista straniero viene a Milano quanto vorrà mangiarsi hamburger e patatine? Ovviamente non è tornato per salvare l’Italia, è tornato per crescere professionalmente, per stare con la sua famiglia, per crescere in un ambiente più a misura d’uomo. Con tanti cervelli in fuga almeno uno lo abbiamo recuperato.

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