Alzi la mano chi di voi non ha a casa un flauto dolce usato a scuola?
Ora facciamo un altro test: chi di voi ha imparato a suonare l’oboe o la chitarra a scuola?
Riproviamo: quanti di voi hanno avuto o hanno i figli che possono far lezione di musica alla scuola primaria con un insegnante che conosce bene la musica?

Ora che avete risposto a queste domande dovete sapere che questa è la settimana nazionale della musica a scuola.
Un altro interrogativo: quanti sapevano della sua esistenza?
Già questo potrebbe bastare per capire quanto la musica nelle nostre aule, soprattutto nella primaria e nei corsi della secondaria di primo grado dove non c’è l’indirizzo musicale ma le classiche due ore di musica, è considerata, come l’arte, una disciplina da mettere al pomeriggio, da fare le ultime ore, da considerare meno importante dell’apprendimento del teorema di Pitagora (che poi matematica e musica sono legate) o degli aggettivi qualificativi.

Non solo. In oltre dieci anni che faccio l’insegnante ho sentito suonare l’ “Inno alla gioia” con il piffero non so quante volte. A salvarci era stato solo l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia: quell’anno per mostrare a mamme e papà, al dirigente scolastico e al sindaco che si era lavorato su quel tema, come governo voleva, tutti i bambini impararono a suonare l’inno nazionale. Sempre con il piffero, chiaramente.

Sia chiaro: non sono un combattente del flauto dolce che provocatoriamente chiamo piffero ma sarà mai possibile che nel Paese di Giacomo Puccini e Gioacchino Rossini, di Antonio Vivaldi e Giuseppe Verdi, di Fabrizio De André, di Lucio Dalla, Pino Daniele e Gian Maria Testa, nelle nostre scuole si crescano ragazzi che non hanno mai ascoltato e capito, soprattutto, un concerto di musica classica oppure non sappiano la differenza tra il pop e il jazz?

Perché non si insegna a suonare il violino, la chitarra, la batteria, l’oboe o il clarinetto magari avvalendosi anche della presenza delle numerose bande sul territorio? E ancora, in un’Italia multiculturale, la musica che s’insegna nelle nostre aule non è per nulla arricchita dalle esperienze di Fatima o di Ranesh o di Suada che al campo rom ha zii che sanno suonare musica gitana. Perché non insegnare ad usare lo jambè o fare della musica un’esperienza di creatività con i bambini?

Non sono un esperto del settore ma mi sono appellato a chi ne sa per capire le ragioni. Ho chiesto a Mario Piatti, docente di pedagogia musicale. Ecco la sua risposta: “Il problema non è il “piffero” (o flauto dolce che dir si voglia), ma i pifferai: quelli che insegnano musica ma da anni non sanno più suonare, non solo il piffero, ma nemmeno i tamburi, le chitarre, le tastiere, gli xilofoni; quelli che ogni anno, in occasione della cosiddetta “settimana nazionale della musica a scuola”, fanno alti auspici perché in tutte le scuole si faccia musica, ma poi non sanno deliberare normative e stanziare fondi adeguati a far sì che nelle scuole ci sia un numero sufficiente di docenti musicalmente e didatticamente preparati; quelli che pensano che con soluzioni tampone come i cosiddetti insegnanti del potenziamento si possa far nascere un coro o un’orchestra in ogni scuola; quelli che non sanno prendere provvedimenti giusti per la formazione iniziale dei docenti di musica; quelli che credono che tutto cominci ora, cioè da quando loro si interessano del problema; quelli che non sanno valorizzare il ruolo delle associazioni del terzo settore”.

Benvenuti nell’Italia che era dei grandi musicisti. Per qualche anno forse non ne vedremo più.

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