A Siena provano a rallegrarsi con il premio Nobel Joseph Stiglitz che, sollecitato dai giornalisti sul tema del salvataggio del Monte dei Paschi, si è limitato a dire che “per fortuna gli Stati Uniti non hanno avuto gli stessi vincoli posti dalla Bce nel salvare le proprie banche”. Ma i conti trimestrali, nonostante i tentativi di imbellettamento dell’istituto, continuano a essere drammaticamente deficitari e banca e Tesoro mantengono ancora le carte coperte sul reale esborso che dovremo sostenere come collettività per salvare il Monte, ammesso e non concesso che alla fine arrivi il sospirato via libera da Bruxelles e Francoforte.

Si sa infatti da qualche giorno – ma era stato ampiamente previsto e scritto nei mesi scorsi – che l’ispezione condotta dalla Bce nel corso del 2016 ha rilevato ulteriori problemi nella valutazione dei crediti attualmente a bilancio, innalzando così l’asticella della ricapitalizzazione “preventiva” dagli 8,8 miliardi richiesti inizialmente (di cui 6,6 a carico dello Stato). E non si tratta dell’unico problema: dati i prezzi a cui il mercato è disposto ad assorbire le sofferenze (Unicredit, ad esempio, ha ceduto le sue intorno al 17% del valore lordo), l’istituto senese si troverebbe a contabilizzare perdite ben superiori a quelle preventivate lo scorso anno con l’operazione – poi fallita – di cessione dei cosiddetti non performing loans al fondo Atlante. E tutto questo, naturalmente, non fa che incrementare il fabbisogno di capitale della banca. Di quanto? Poiché i soldi dobbiamo metterli noi cittadini, in omaggio alla trasparenza la cifra non è stata ancora resa nota. Vedremo. Per intanto, dalla trimestrale del MontePaschi iniziamo a renderci conto di due cose: che i costi operativi rimangono pressoché invariati (-2,7% rispetto al primo trimestre 2016), mentre tutti i principali indicatori economici segnano ulteriori cali. I ricavi sono diminuiti del 21,3% a 933 milioni, il margine d’interesse è sceso del 16,6% rispetto al primo trimestre 2016 (-9% su fine dicembre 2016), le commissioni nette sono calate del 6,7% (-2,4% rispetto a dicembre 2016), il risultato netto da “negoziazione/valutazione di attività finanziarie” si è attestato a 25 milioni, “in forte calo rispetto al primo trimestre 2016”: così scrive la banca, evitando di significare l’entità della variazione.

Gli impieghi verso clientela sono scesi del 9,8% rispetto al primo trimestre 2016 e del 4% rispetto allo scorso trimestre, mentre la raccolta diretta si è leggermente ripresa dal picco negativo di dicembre (+4,6%) ma risulta in calo di circa il 10% rispetto al primo trimestre 2016. Pesante anche il calo della raccolta indiretta che si è fermata a 97 miliardi di euro, 8 miliardi in meno rispetto al marzo 2016 e 1,2 miliardi in meno rispetto a dicembre anche a causa dei “flussi netti negativi della clientela commerciale”.

In tutto questo, il trimestre si è chiuso con un risultato operativo lordo in calo del 43% sullo stesso trimestre dell’anno precedente (306 milioni contro 540), con una perdita netta di 169 milioni di euro, mentre i ratios patrimoniali si sono ulteriormente ridotti attestandosi ben al di sotto dei limiti regolamentari, con il Common equity Tier1 al 6,5% contro l’8,2% di dicembre e l’11,7% del primo trimestre 2016. Al 31 marzo 2017 il patrimonio netto del gruppo è sceso a 6 miliardi di euro (-3,7 miliardi rispetto allo stesso trimestre dell’esercizio precedente, -416 milioni rispetto a fine dicembre), mentre la posizione di liquidità è migliorata soprattutto per effetto dell’emissione di titoli obbligazionari con la garanzia statale, cioè nostra.

Insomma, più la si guarda più ci si rende conto che la banca senese ha ormai assunto le caratteristiche delle cosiddette banche-zombie, istituti dipendenti in tutto e per tutto dall’aiuto statale senza il quale crollerebbero: esattamente l’opposto di ciò che si prefigge la legislazione europea in materia. E’ quindi chiaro che, al di là delle dichiarazioni di circostanza sui “proficui incontri” con la responsabile del Supervisory Board Danièle Nouy, ottenere il via libera al salvataggio non è così scontato, anche perché sotto il profilo strettamente industriale non si vedono elementi che possano riportare in tempi ragionevoli il MontePaschi sul sentiero della redditività. E una banca-zombie che campa grazie all’assistenza statale, oltre a costituire un fattore di debolezza per l’intero sistema, rappresenta anche un fattore distorsivo enorme della concorrenza, ragion per cui l’ingresso dello Stato nel capitale deve essere assolutamente accompagnato da un impegno preciso di uscita. Ma in queste condizioni è pressoché impossibile per il Tesoro prendere un impegno di questo tipo: la ristrutturazione sarà lunga, dolorosa e nessuno è nemmeno in grado di dire se funzionerà. In sostanza, quello che viene chiesto a Bruxelles con la cosiddetta “ricapitalizzazione preventiva” è carta bianca a fronte di rassicurazioni generiche. Magari per il Monte dei Paschi, che fino alla fusione Banco-Bpm era il terzo istituto italiano, il “colpo” potrà anche riuscire, ma per le due venete (Veneto Banca e Popolare Vicenza) sarà molto più dura.

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