Chiesa di S. Agostino, l’Aquila – foto di Enzo Francesco Testa

Dove vien meno l’interesse,
vien meno anche la memoria.
(J. W. Goethe)

Mi scuserà Goethe se, da fotografo, mi permetto un ribaltamento della sua frase: quando vien meno la memoria, vien meno anche l’interesse. La fotografia – lo sappiamo – è memoria, e la memoria ricorda qualcosa che è statoSorprendenti sono i cortocircuiti che le parole possono talvolta creare, e allora partiamo da qui: “stato” è il participio passato del verbo essere, ma stato significa anche, come sostantivo, condizione o nazione.

Restando sul terreno della fotografia, lo scorso mese di aprile ha visto la presentazione di due iniziative accomunate dalla parola stato: Lo stato delle cose e gli Stati generali della fotografia. Cose molto diverse e molto lontane, ma che non dovrebbero esserlo poi così tanto.

Sono passati 8 anni dal terremoto dell’Aquila: come un sisma è rappresentato da un grafico, così la memoria. E la curva della memoria decresce drasticamente quando si spegne l’attenzione mediatica su un evento. Ma senza memoria non c’è futuro, e questo vale anche per l’Aquila e per tutti i luoghi terremotati. A caldo, centinaia di fotografi hanno documentato e raccontato la tragedia, i soccorsi, le vite devastate, la morte, le macerie, la perdita di affetti, di rapporti, di senso, di radici, di arte, d’identità.

Altri, con un respiro più dilatato, hanno cercato sottotraccia, storie intime o metafore universali, a partire da ciò che restava, lavorando da autori che elaborano progetti personali slegati da logiche di news o di cronaca. Ma tutto, col passare degli anni, è andato raffreddandosi e comunque anche i lavori più densi hanno esaurito il loro ciclo di vita.

Ora, in quest’Italia dalla scarsa memoria, un giornalista appassionato di fotografia e sensibile ai temi sociali, Antonio di Giacomo, si butta in un’impresa nobile e indispensabile quanto temeraria: decide di creare un organismo vivente e pulsante – le sue cellule i fotografi – destinato e votato a mantenere ancora desta l’attenzione e monitorare, con i suoi grandi occhi di vetro, “Lo stato delle cose” (questo il nome del progetto) rispetto alle conseguenze del terremoto all’Aquila.

Dopo una prima fase che, dal 29 maggio al 6 giugno 2016, ha visto 35 fotografi tornare l’Aquila per riportare all’attenzione le condizioni di vita attuali, purtroppo il corpo dell’Italia centrale ha visto susseguirsi una serie micidiali di tremiti, da Amatrice a Norcia passando per molti altri luoghi.

Dunque Lo stato delle cose. Geografie e storie del doposisma ha sentito l’esigenza/urgenza di doversi allargare divenendo, di fatto e sui fatti, un osservatorio permanente sull’Italia dei terremoti; e con questa funzione essenziale non può – non deve – sottrarsi a rimanerlo nel tempo. Così, complessivamente, ben 60 fotografi, tra cui autori molto affermati, hanno aderito a titolo gratuito (tutta la “macchina” è autofinanziata e non profit).

Risultato: oltre diecimila foto in questo grande contenitore che strada facendo si è strutturato in più sezioni, tornando anche a considerare i terremoti precedenti (Belice, Irpinia e così via).
Inoltre, per continuare a documentare il post-terremoto in Umbria e nell’Italia centrale, è appena nata una collaborazione col Perugia social photo fest, che verrà presentata a Perugia il prossimo 6 maggio.

In tutto questo, ci sono ragioni sociali, documentarie ed etiche che riportano in vita una parola dimenticata dalla fotografia italiana: campagna fotografica. Al di là delle motivazioni e degli scopi, che possono essere i più diversi, una campagna fotografica è un rilevamento sistematico e programmato di un territorio, di una realtà, di un periodo, realizzato in genere da più autori coordinati tra di loro dall’ente, dal committente, dall’organizzazione o dallo Stato che quella campagna ha voluto. In Italia, l’ultima campagna istituzionale importante che si ricordi è L’archivio dello spazio (58 fotografi, 10 anni di lavoro dal 1987 al ‘97) voluta dalla Provincia di Milano per una “mappatura” d’autore del suo territorio.

Altrove restano nella storia, per esempio, la Farm security administration (Fsa) (voluta da Roosevelt nel 1937 per documentare la grande depressione in Usa) e in tempi più recenti la Mission photographique de la Datar in Francia (dal 1985 all’89), orientata a documentare i cambiamenti del paesaggio negli anni ‘80. Tutte accomunate da una cosa: istituzioni pubbliche come motori e finanziatori.

E poi si passa dallo Stato delle cose alle cose dello Stato: gli Stati generali della Fotografia. Al Mibact, il 6 aprile scorso, il ministro Franceschini ha chiamato a raccolta molti validi operatori attivi a vario titolo nel nostro “piccolo mondo antico” della fotografia italiana (critici, fotografi, galleristi, curatori, editori, ecc.) per discutere e lanciare proposte concrete alla “cabina di regia” statale (così l’hanno chiamata…) che d’ora in poi dichiara di volersi prendere cura di un settore così storicamente trascurato dalle istituzioni. La prossima tornata di lavori degli Stati Generali sarà il 5 maggio a Reggio Emilia, nell’ambito di Fotografia europea.

È una bella notizia. L’intento è sacrosanto e vale il classico “meglio tardi che mai”. Non possiamo essere pessimisti per partito preso o per disfattismo, dunque tifiamo e remiamo a favore dell’iniziativa. Se lo faremo insieme arriveremo più lontano e prima. Non dobbiamo però nasconderci che, spesso, il pessimista è solo un ottimista bene informato: e l’informazione è che in Italia quasi ogni tentativo pubblico di occuparsi di fotografia o è naufragato o è diventato marketing. I soldi, come in un’azienda, o servono a fare altri soldi o non ci sono e si chiude. È la solita storia della cultura come spesa improduttiva (con cui “non si mangia”).

Vedremo, al netto di tutto, se questa è la volta buona. E lo vedremo anche dal fatto che, domani, le grandi campagne fotografiche come Lo stato delle cose. Geografie e storie del doposisma, di un così alto valore sociale e storico, riguardanti questioni epocali e centrali nella vita del nostro Paese, non saranno più solo frutto della fatica, del coraggio, della dedizione e della passione di un singolo che, creando attorno a sé una rete di collaboratori volontari e un circolo virtuoso, realizza simili imprese in assenza di un supporto dello Stato.
Forse tutto cambierà, ma per la fotografia italiana – ad oggi – questo è ancora lo stato delle cose.

(Seguitemi su Twitter e Facebook)

Articolo Precedente

Arrigo Cipriani racconta il “suo” Harry’s Bar: “Chef in tv? Uno dei nostri ci è andato e l’abbiamo licenziato. Il mio sogno? Essere il 90enne più veloce del mondo”

next
Articolo Successivo

‘Nessuna pietà per l’arbitro’ perché è il parafulmine perfetto per la nostra frustrazione

next