Decide di dedicarsi esclusivamente alla musica quando sospende l’attività di giornalista: “È stato quando la cooperativa del Pd romagnolo ha imposto come direttore del giornale nel quale lavoravo, Settesere, il figlio del ministro del Lavoro Poletti, Manuel. Quel giorno – racconta Antonio Gramentieri – 9/12 della redazione lasciò in blocco dopo 12 anni di lavoro”.

Oggi, Antonio può ritenersi fortunato: con i suoi Sacri Cuori è riuscito a imporsi all’attenzione di pubblico e critica ed è costantemente in viaggio nel mondo per via delle molte richieste. Non pago, ha anche dato vita a un progetto solista che va sotto il nome di Don Antonio e da pochi giorni ha pubblicato l’album omonimo. Si tratta di un disco estremamente folclorico senza però essere di genere, composto da 14 brani in prevalenza strumentali: più che andare a rileggere formule e clichè già esplorati da tanti altri, Gramentieri prova a mescolare l’idea di suono del Sud, dandogli un’identità latina trasversale. Registrato in Sicilia insieme con Cesare Basile, ma rifinito nella sua Romagna, è un disco dalle melodie romantiche (Amorcantando), con strappi blues e balli di gruppo (Baballo e Sunset Adriatico). Il suono dell’Italia contemporanea inquadrato in un fotogramma mosso.

Per la tua attività da solista hai dato vita a un tuo doppio: chi è Don Antonio?
Essendo un appassionato del cinema di David Lynch, mi piaceva l’idea di avere una identità slittata, un altro me possibile: me lo sono immaginato come un direttore d’orchestra paffutello che dirige da qualche parte, fra il Messico e qualche Sud del mondo, la sua orchestra che suona una musica che abbraccia tutti i Sud possibili.

Esordisci in versione solista con un disco estremamente folclorico senza essere un disco di genere. 
Per me il difetto di molta musica folclorica è che sembra tutto un rifarsi a dei cliché, come se l’idea del folk si fosse fermata a 50 anni fa. In realtà, il folk è quello che ascolta la gente adesso: non mi interessa studiare i ritmi della cumbia nicaraguense e rifarla uguale, preferisco dipingere un affresco di un Sud dell’anima. Lavorare in Sicilia con Cesare Basile è stato molto interessante: sono anni che Cesare cerca di sviluppare questa idea di folk siciliano che non sia di replica, facendola rivivere certi moduli con la sensibilità contemporanea che lo contraddistingue.

È un disco che metaforicamente si lascia alle spalle il continente e si affaccia verso il mare, contemplando tutto quel che avviene nel Mediterraneo.
Contemplare è il verbo appropriato: lo fa senza la pretesa di dare un giudizio o di metterlo in copertina. Il fatto è che siamo cresciuti con una idea di Europa dove l’orientamento Nord-Sud delle cartine sembrava quasi una indicazione gerarchica, col tempo invece ci siamo ritrovati in una Europa dove tutte le domande vengono da Sud, e per capire quel che sta succedendo bisogna rovesciare le cartine. Sapevo che quando stavo componendo questo disco avrei voluto registrarlo in una terra di frontiera: la Sicilia ho pensato che fosse il posto giusto per vivere una esperienza di frontiera in casa nostra.

Qual è la principale differenza fra Don Antonio e Sacri Cuori?
Don Antonio è nato con l’idea di mettere sotto un tetto comune tutti quegli esperimenti fatti allargando i confini del linguaggio folclorico che ho affrontato nel mio percorso. I Sacri Cuori, negli anni, si sono stabilizzati, anche se rimangono un laboratorio sempre aperto, nell’ultimo disco, infatti, ci sono canzoni che hanno avuto una loro vita indipendente, diversamente dalle nostre composizioni abituali. Un brano è addirittura finito in una pubblicità della Volkswagen in Svezia e Norvegia. Era ovvio che si creasse un certo livello di aspettative che volevo completamente bypassare e non potendolo fare con un disco nuovo dei Sacri Cuori – ovviamente parliamo di numeri medio-piccoli –, per resettare ho cercato di fare qualcosa di simile a quello che fecero i Latin Playboys, che erano i Los Lobos in libera uscita, che quando negli anni 90 cominciarono a esser più conosciuti, proseguirono a fare dischi sperimentali sotto mentite spoglie. Mi è sempre piaciuta l’idea di avere una identità segreta: per uno come me che è un giramondo e che considera la musica occasione di incontri e condivisione, è stato come un percorso di purificazione rigenerante.

Sei un tipo che è sempre in giro, attualmente dove ti trovi?
Sono a Dublino per gli ultimi due giorni di tour, poi dopo un breve ritorno a casa, ripartiremo per altre quattro date fra la Svezia e la Norvegia. Sono un po’ di anni che nell’ambito delle mie attività tratto l’Italia come gli altri Paesi: per creare delle mappe, visto che le luci sono fioche, si prova a creare dei percorsi con le lucine che si sono accese qua e là.

Puoi farmi un breve resoconto di questo tour?
È un tour partito con una sana dose di incoscienza, a differenza di quanto fatto in passato con i Sacri Cuori: dopo che Alejandro Escovedo, uno dei miei miti, mi ha proposto di partire insieme, ho unito l’utile al dilettevole, in modo che diventasse l’occasione per presentare anche in Europa il disco di Don Antonio. Così dopo un po’ di prove ed esperimenti in saletta come ai vecchi tempi, siamo partiti per questa tournée di 40 date, mettendo su una formazione vecchia e nuova al tempo stesso ed è stato un grande successo, la migliore delle presentazioni possibili.

Nel disco compare anche l’ex Bad Seed, Hugo Race.
Con Hugo collaboriamo insieme ormai da anni, infatti i Sacri Cuori + Hugo Race formano i Fatalist, è un po’ come delle scatole cinesi… Un giorno gli ho chiesto se gli andasse di fare una sorta di talking su un pezzo che stavo preparando, e quando ci siamo ritrovati in sala di registrazione in dieci minuti ha scritto delle liriche molto centrate rispetto al messaggio che volevo dare a quel pezzo.

So che nella tua vita precedente eri un giornalista.
È un po’ come quando entri nei boy scout: lo sei per tutta la vita, anche se non eserciti più.

Che esperienze hai avuto?
Oltreché collaboratore di Repubblica a livello nazionale, sono stato caporedattore di un settimanale romagnolo che si chiama Settesere, che però oggi è diventato tutt’altra cosa.

Settesere, il settimanale diretto dal figlio del ministro del Lavoro Giuliano Poletti?
Esatto. Io sono andato via il giorno in cui è arrivato il figlio di Poletti.

La scelta di lasciare nel momento dell’arrivo di Poletti è stato casuale?
No, anzi 9/12 della redazione lasciarono il giornale dopo 12 anni il giorno in cui la cooperativa del Pd ha imposto il figlio di Poletti come direttore per mille motivi facilmente immaginabili. Ho deciso – anzi mi sono trovato costretto – a dare molto più peso professionalmente alla musica il giorno in cui ho deciso di sospendere il mio rapporto con il mondo del giornalismo. È stata una delle più brutte esperienze della mia vita, ed è per questo – nonostante sia una persona molto pacifica – che quando sento qualcuno che osa difendere il Pd romagnolo, tiro fuori il bazooka e comincio a sterminare degli innocenti a caso per sublimare l’aggressività.

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